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Storie di terra e di rezdore: un cantiere aperto

di Antonio Cherchi
Fiduciario Slow Food della Condotta di Modena



La ricerca Storie di Terra e di Rezdore comprende oltre 160 interviste a più di 200 persone, per lo più anziani, che offrono una testimonianza personale di cosa erano e sono la vita contadina, le abitudini alimentari e la gastronomia della provincia di Modena.

Non è un tema nuovo, anzi è già stato affrontato ed approfondito sotto diversi punti di vista, da quello gastronomico a quello storico-economico, agrario, etnologico e documentaristico. Recentemente è stato pubblicato un piccolo volume di Giuseppe Di Genova e Dario Ghelfi che ha per titolo "La civiltà contadina nel modenese" (Il Fiorino, luglio 2006), basato anch'esso su interviste ad anziani, che affronta gioco forza più o meno gli stessi temi. Viene perciò da chiedersi cosa distingua questa ricerca dalle altre, cosa la giustifichi.

La novità consiste innanzitutto nel mezzo tecnico, perchè le interviste sono tutte state filmate con l'uso di una cinepresa digitale, realizzando una documentazione che potrà assumere un valore storiografico decisamente superiore rispetto ad una intervista scritta o solo registrata. Le persone sono state riprese nel loro ambiente, mentre raccontano la loro esperienza, magari in dialetto, e ci parlano non solo con la voce ma con tutte le espressioni, gli occhi, il viso, le mani, spesso il corpo che lavora in cucina o in campagna. Ma forniscono preziose informazioni anche i luoghi in cui stanno durante le riprese, i contesti naturali, le abitazioni con i loro arredamenti, i loro attrezzi o utensili, cosí come sono nella quotidianità: nulla è stato fatto per imbellire o tagliare i difetti, cosicchè per esempio anche la documentazione filmata della realizzazione delle ricette è quanto di più vicino possa esserci alla vita reale di tutti i giorni degli intervistati e quanto di più distante dalla "finta" perfezione dei tanti spadellatori televisivi. Si tratta di documenti di grandissimo valore umano, tanto più se si considera che, purtroppo, alcuni degli intervistati ci hanno già lasciato e la loro intervista è divenuta a tutti gli effetti un'ultima, preziosa, testimonianza, a futura memoria.
Ma al di là del mezzo, credo che questa ricerca si distingua soprattutto per il metodo, che è quello di Slow Food, un'associazione che sta cercando di fare i conti con il passato, con le tradizioni, non per un mero scopo di conservazione e tutela di quelle tradizioni nè tantomeno con uno scopo documentaristico o storico, ma per stimolare ed accompagnare un cambiamento possibile dell'agricoltura, della gastronomia, del rapporto fra l'uomo e il cibo, verso ciò che Carlo Petrini, presidente internazionale di Slow Food, condensa nel titolo del suo ultimo libro con l'espressione "Buono, pulito e giusto" .

Un cibo deve essere buono perchè il mangiare è uno dei piaceri della vita e lo è perchè i nostri sensi (e, perchè no, anche quelli degli animali e delle piante), forgiati dalla selezione naturale, funzionano cosí, sono attrezzati a distinguere ciò che in natura può essere cibo rispetto a quello che è dannoso, innanzitutto in funzione del piacere che ci procura il mangiarlo. Il che non significa che tutto ciò che è buono faccia bene, ma poichè, come insegnava Popper, la nostra conoscenza del mondo è sempre di natura congetturale, è molto probabile che sia cosí: insomma il piacere è un criterio per la sopravvivenza. Questo rapporto diretto tra l'esperienza sensoriale e la natura, nella storia dell'umanità si è praticamente del tutto perso: forse ne rimane piccola traccia quando e se si prova ad annusare, ad assaggiare un frutto selvatico che non si conosce. Per il resto l'esperienza accumulata prima dai cacciatori-raccoglitori, poi dagli agricoltori, gli allevatori, i cuochi, per arrivare alla moderna agro-industria, hanno profondamente modificato, diversificato e complicato il rapporto fra i sensi ed il cibo, tanto che quasi niente di ciò che mangiamo è del tutto naturale, non interessato da azioni umane.

Dobbiamo però chiederci se questa distanza dalla naturalità è figlia della ricerca del piacere, cioè della sopravvivenza, ovvero di altri interessi, magari di tipo meramente economico. I nostri intervistati sono tutti consapevoli dell'importanza del diritto al piacere a tavola, della necessità che il cibo debba essere buono come un elemento di primaria importanza per giudicare la qualità della vita. Forse perchè appartengono ad una generazione che ricorda bene periodi di stenti ed anche di fame, una generazione che quando si alza al mattino pensa a ciò che potrà mangiare e si preoccupa che sia buono e sia fatto bene, per la quale l'obiettivo non è spendere il meno possibile, ma mangiare nel miglior modo possibile con il vincolo dei soldi che si hanno.

Il cibo deve essere pulito nel senso che per la sua produzione si deve utilizzare l'ambiente in modo sostenibile, conservandone l'integrità a beneficio delle future generazioni. Come documenta in modo convincente Jared Diamond nel libro "Collasso", un atteggiamento troppo invasivo, teso a sfruttare le risorse naturali senza porsi il problema della loro scarsità e della loro riproducibilità, ha portato nei millenni alla scomparsa di molte civiltà che pure avevano goduto di grande floridità. Al contrario,un approccio olistico, che cerchi di comprendere come funziona la "natura", l'evoluzione, e si preoccupi di valutare l'impatto del comportamento umano sull'ambiente, non potrà che dare grande valore alla biodiversità, alla conservazione della fertilità del suolo e dei mari.

Abbiamo sempre chiesto ai nostri intervistati di parlarci di come sono cambiate le tecniche agricole, i modi di produzione, le qualità dei vegetali coltivati e degli animali allevati, con riferimento all'arco storico della loro esperienza: ne è emerso il racconto di una perdita di biodiversità e di un cambiamento di cultivar e di razze guidato più dell'aumento delle quantità di prodotto e della diminuzione dei costi che dalla ricerca della qualità, del rispetto dell'ambiente e della fertilità dei suoli. I più si interrogano criticamente sul fatto che ne sia valsa davvero fino in fondo la pena, se non potessero esserci delle strade alternative, meno invasive, più capaci di coniugare le ragioni del mercato con quelle dell'ambiente e della tutela e valorizzazione della biodiversità. Spesso i nostri intervistati hanno avuto un ruolo attivo nel farsi custodi di una biodiversità che altrimenti sarebbe andata perduta.

Il cibo deve essere giusto, deve avere un prezzo che ripaghi la sforzo, la professionalità, l'intelligenza ed anche la testardaggine di chi l'ha prodotto per farlo buono e pulito, spesso il più buono e pulito possibile. Non c'è dubbio che questo è possibile solo per consumatori educati, in grado di apprezzare quelle qualità, senza farsi incantare nè dalle sirene della pubblicità nè da quelle di un aggettivo, "contadino", accostato a prodotti che in effetti non sono nè buoni nè puliti. Petrini sostiene che i consumatori debbono diventare co-produttori, sottolineando questa necessità di conoscere e saper apprezzare l'intero percorso che porta dalla terra alla tavola, riconoscendo cosí che "mangiare è un atto agricolo" come sostiene il poeta contadino Wendell Berry, ovvero, forse più propriamente, che l'agricoltura è il primo atto gastronomico e che un cibo buono e pulito può essere ottenuto soltanto valorizzando i saper fare sviluppati dai contadini nel corso di migliaia di anni non meno del sapere scientifico che oggi ci permette di valutare criticamente ed arricchire quei saperi antichi.

Le storie dei nostri intervistati sono quelle di persone che, in un modo o nell'altro, sono depositarie di molti saperi legati all'agricoltura, alla trasformazione dei prodotti, alla cucina, ma i cui sforzi non sono stati premiati adeguatamente dal punto di vista economico, tanto da indurli spesso ad abbandonare le campagne o costringerli ad affrontare ancor oggi situazioni di evidente difficoltà.

Ridare dignità e visibilità a quei saperi, metterli in comune, preservarli, svilupparli, utilizzarli per educare e formare: è questo il cantiere che si è aperto con "Storie di terra e di rezdore".


I - Il contesto della ricerca

Prima di passare ad illustrare alcuni temi della ricerca, soprattutto per chi non è modenese, è opportuno inquadrarla nel contesto politico-amministrativo, storico, geografico ed economico in cui si colloca.

1) La Provincia di Modena
La Provincia di Modena si estende su una striscia di territorio di 2.690 kmq, dagli Appennini verso il Po, che non tocca mai, confinante a nord con l'oltrepò della Provincia di Mantova, a est con la Provincia di Bologna, a sud con le province di Lucca e Pistoia e ad ovest con la provincia di Reggio Emilia.

è suddivisa in 47 comuni, 23 in pianura (pari al 47,5% del territorio), 10 in collina (il 17,2%) e i restanti 14 nelle zone montuose dell'appennino (il 35,3%) raggruppati in tre comunità montane che dividono longitudinalmente il territorio e comprendono alcuni comuni di collina: la comunità Modena Ovest con sede a Montefiorino, comprendente anche Frassinoro, Palagano e Polinago, quella del Frignano con sede a Pavullo, comprende anche Serramazzoni, Lama Mocogno, Riolunato, Pievepelago, Fiumalbo, Montecreto, Sestola e Fanano e quella di Modena Est con sede a Zocca, comprendente anche Montese, Marano e Guiglia. Ci sono poi tre unioni di comuni, quelle delle Terre dei castelli (area Vignola), quella dei comuni del sorbara (area Castelfranco-Nonantola), quella dei comuni dell'area Nord (Mirandola-Finale), ed un'ultima zona che comprende Carpi e comuni limitrofi.

Conta circa 620.000 abitanti, di cui quasi la metà risiede nelle tre città più grandi (Modena circa 180.000, Carpi 60.000, Sassuolo 40.000): la densità per kmq è di 230 abitanti con punte massime sui mille a Sassuolo e Modena e punte minime nei comuni della montagna (Riolunato 17, Frassinoro 24).

2) Storia
Il territorio modenese fu colonizzato nel secondo secolo dopo Cristo dai Romani che costruirono la Via Emilia e fondarono Mutina. Devastato dalle invasioni barbariche dell'VIII secolo, poi da calamità naturali, il territorio di pianura migliorò le condizioni di vita verso il mille, quando la bonifica benedettina riconquistò terre all'agricoltura e si fortificarono borghi e città.

Nella montagna, difesa naturalmente, si consolidarono gruppi di feudatari in perenne lotta con i liberi comuni della pianura.

Di quel periodo è certamente molto significativa l'influenza di Matilde di Canossa, che oltre alle bonifiche in Pianura, promosse la coltivazione del castagno in montagna, che si sarebbe rivelata fondamentale per garantire la sopravvivenza di quelle popolazioni.

Ma la svolta storica più significativa si ebbe nel 1336 quando Modena passò agli Estensi, signori di Ferrara, che nel 1413 occuparono la Garfagnana e nel 1430 la Lunigiana; nel 1511 conquistarono anche il principato di Carpi ma persero quello di Sassuolo (a beneficio dei Pio) che riconquistarono nel 1599. Nel 1599, quando Ferrara tornò al papato, Modena divenne la capitale del ducato di Modena e Reggio e tale rimase, estendendo il proprio territorio al principato di Mirandola nel 1707 e all'attuale provincia di Massa e Carrara nel 1741 (che in seguito darà vita ad una provincia autonoma), con la parentesi del periodo napoleonico (dal 1796 al 1814), fino all'annessione al regno d'Italia nel 1860.

Tutte le principali fonti storiche in materia di gastronomia appartengono al periodo estense ed esaltano ovviamente l'importanza di Modena, da quando divenne la capitale del Ducato.

A Modena vengono riferiti tutti i prodotti, a dispetto della circostanza che poi le aree di maggior sviluppo territoriale fossero nelle province.

Ma in effetti, pur costituendo un'unità politica, il ducato estense continuò ad essere caratterizzato da forti spinte autonome, sopravvivenze dell'età comunale e rinascimentale. Gli estensi divisero il territorio in otto distretti: Reggio Emilia (che comprendeva l'attuale provincia ad eccezione della parte verso il Po, ed in particolare i territori di Guastalla e Novellara), Lunigiana, Garfagnana, Mirandola, Sassuolo, Carpi, Sestola e Modena.

Solo gli ultimi cinque rimarranno propriamente modenesi, tuttavia sempre ben differenziati al loro interno e gelosi di quelle differenze.

Nel 1860 venne istituita la nuova Provincia di Modena che comprendeva anche Castelnuovo Garfagnana e Castelfranco Emilia, persi dopo neppure un anno, quando invece venne aggiunta Finale Emilia. Castelfranco tornò modenese nel 1928.

Sotto il profilo storico, le aree di potenziale (ma non sempre reale) distinzione della cultura agricola e gastronomica nell'ambito dell'attuale Provincia sono perciò almeno 8: Modena Estense, la Carpi dei Pio, la Sassuolo dei Della Rosa e dei Pio, la Mirandola dei Pico, il Frignano dei Montecuccoli, Castelfranco Emilia papale, più l'Appennino modenese est sotto l'influenza di Bologna e quello Ovest sotto l'influenza di Reggio Emilia. Ma non sono da trascurare le esperienze dei due marchesati di Vignola-Savignano prima dei Contrari poi dei Buoncompagni e di Spilamberto-Castelvetro dei Rangoni.

3) Geografia/Agricoltura
Il settore agricolo della provincia di Modena si colloca attualmente al decimo posto tra le province italiane per produzione lorda vendibile e presenta forti legami con l'industria alimentare di trasformazione e di conservazione dei prodotti, i cui comparti più importanti sono il lattiero-caseario con il parmigiano-reggiano (190 mila quintali in Provincia di Modena) e la lavorazione delle carni sia fresche che per il confezionamento di salumi ed insaccati, ma si estende a tutti gli altri prodotti, dalle conserve dell'ortofrutta, al vino, all'aceto balsamico, al pane e derivati, alla pasta etc. etc..

Vi sono tuttavia differenze rilevanti nell'uso agricolo del territorio, dovute soprattutto alla diversità geografica fra montagna, collina e pianura.

Estremamente rilevante è anche la fitta rete idrografica naturale ed artificiale i cui principali componenti sono rappresentati dai fiumi Secchia e Panaro (che avvolgono Modena in una cintura) e dai loro affluenti, che determinano le vallate che si estendono longitudinalmente rispetto al crinale appenninico e, nella pianura verso il Po, prima delle ultime bonifiche degli anni 20, confondevano le loro acque creando una sorta di delta interno, una vasta zona paludosa.

In effetti le tre aree che corrispondono al territorio delle comunità montane sono separate dal Leo (che poi diventa il Panaro) che divide Modena Est dal Frignano e dal Dragone (che confluisce nel Secchia, che divide il Frignano da Modena Ovest: insomma i fiumi più importanti fanno come da confine, se non da barriera, per aree che di conseguenza anche culturalmente e storicamente sono abbastanza differenziate e relativamente isolate l'una dall'altra.

Peraltro anche in Pianura la parte più bassa (altimetricamente) verso il Po, si distingueva dalla media pianura più fertile. Pertanto, geograficamente, le zone da distinguere sono almeno sei.

In montagna storicamente hanno avuto un grande peso le superfici occupate dai boschi ed in particolare dai faggeti e castagneti e dai pascoli. Il legname e le castagne sono state le due risorse economiche più importanti per garantire la sopravvivenza, insieme alla pastorizia transumante, mentre l'agricoltura pur rivolta come in pianura alla coltivazione di cereali e vite ed all'allevamento dei bovini è sempre stata molto più povera.

Negli ultimi cinquant'anni si è assistito ad una costante riduzione del territorio destinato all'agricoltura a favore del rimboschimento e dell'incolto, alla quasi scomparsa della pastorizia e, negli ultimi anni, anche ad una grave crisi della produzione di parmigiano reggiano.

Nella pianura, e in parte anche in collina, si è verificata una trasformazione radicale del paesaggio agrario nel secondo dopoguerra, che ha portato, oltre all'industrializzazione della stessa agricoltura, ad una sempre più significativa presenza di insediamenti industriali, infrastrutturali, urbani, rompendo l'equilibrio agrario preesistente che nella pianura emiliana (e modenese) era quello della piantata del XVIII° secolo, figlio della cosiddetta rivoluzione agronomica. Quest'ultima a sua volta aveva sostituito altri modi di organizzare l'uso del territorio per scopi agricoli (il ripristino in epoca medioevale della limitatio romana) e cosí via, fino agli albori della nostra conoscenza degli insediamenti umani su questo territorio – la civiltà della terramare – quando la pianura era una boscosa palude.

L'industrializzazione, tuttavia, ha prodotto un cambiamento cosí radicale e rapido come non si era mai visto in tutti gli altri passaggi, con un impatto enorme sull'uso dei suoli (industria ed area urbana hanno sottratto spazio all'agricoltura che lo ha in parte recuperato a danno dell'incolto), su ciò che viene coltivato o allevato e come. In particolare nel dopoguerra si è assistito al proliferare di monocolture specializzate, la vite, la frutta, la barbabietola da zucchero, il mais, alla creazione di grandi stalle e porcilaie ed alla progressiva scomparsa dei poderi mezzadrili che avevano caratterizzato l'agricoltura modenese fino alla seconda guerra mondiale.

In collina, pur con notevoli trasformazioni hanno resistito colture tradizionali di pregio come quelle della ciliegia e della frutta nella zona di Vignola e della vite in particolare nella zona di Castelvetro.


II - Le interviste

Le interviste hanno cercato di coprire l'intero territorio provinciale, nel tentativo di documentare, per quanto possibile, tutte le principali colture agricole che hanno caratterizzato le diverse aree della provincia ed il loro cambiamento nel tempo, ma anche le tradizioni gastronomiche di ciascun territorio, incentrate sulla cucina nelle sue diverse coniugazioni ed esperienze, anche quelle sviluppatesi nelle città e non solo nella campagna.

Gli intervistati, normalmente (ma con qualche significativa eccezione) sono stati scelti fra le persone anziane con oltre 70 anni, qualche volta più di 80. Ciò significa che hanno vissuto la loro adolescenza e/o la loro infanzia durante il fascismo, hanno conosciuto direttamente la dura esperienza della guerra e poi i grandi cambiamenti che dal dopoguerra hanno portato al boom economico.

Praticamente per tutti loro, i ricordi dell'infanzia sono legati alla terra ed alla campagna in cui vivevano - perchè appartenevano a famiglie contadine (piccoli proprietari, mezzadri, semplici braccianti) o di grandi proprietari - che poi in molti hanno abbandonato o per emigrare o per andare a lavorare nell'industria o nei servizi e vivere in città.

Molti di loro sono perciò coinvolti nell'indebolimento, se non nella rottura, del rapporto fra l'uomo e la campagna, intesa come luogo di provenienza delle materie prime con cui si fa il cibo, un legame che in passato è sempre stato mantenuto anche da chi dalla campagna si era trasferito nelle aree urbane, che consentiva di conservare una buona conoscenza di chi produceva cosa e come. Una fetta sempre maggiore di ciò che si mangia in città non proviene più direttamente dalla campagna circostante ma o ha subito processi di trasformazione industriale o è stata importata da altre aree: la campagna diventa soltanto il luogo del ricordo, della memoria, senza avere più legami con la realtà quotidiana, se non nelle attività, prevalentemente in cucina, che possono essere ancora fatte, nella preparazione di piatti imparati allora ed oggi riproposti in un contesto completamente diverso, usando materie prime, utensili, strumenti che non sono più quelli ricordati.

Ma molti di loro sono anche protagonisti del venir meno del rapporto fra generazioni come modalità principale di trasmissione dei saperi legati alla coltivazione ed al cibo, con la conseguenza che alcuni saper fare non vengono più tramandati con la stessa frequenza del passato, e sono anch'essi a rischio, più o meno serio, di estinzione ed in compenso le nuove generazioni non dispongono più di quella che è stata la principale fonte di educazione del gusto di chi li ha preceduti e sono facilmente preda di una semplificazione delle abitudini alimentari che accosta i cibi standardizzati e dai sapori omologati dell'agroindustria a pochissimi piatti delle nonne, quasi sempre i tortellini o i piatti più ricchi, che nelle tradizioni culinarie dei contadini erano un'esperienza rara. Una grande porzione del patrimonio di piatti e di ricette della tradizione contadina, soprattutto quelle che utilizzano le materie più povere – il sangue e le interiora degli animali, la cacciagione, molti pesci, le rane, le lumache, la farina di castagne, la stessa polenta di mais – o sono praticamente estinte o non fanno più parte dell'alimentazione delle nuove generazioni.


III - Il saper fare dei contadini e delle rezdore

Una delle più belle esperienze di "Storie di Terra e di Rezdore" è stata l'incontro con Pietro Ferrarini che vive solo da molti anni nell'Appennino modenese in una magnifica e malridotta casa in sasso, isolata in mezzo al castagneto, rimasta com'era oltre 70 anni fa, quando lui è nato: la sua stanza da letto al primo piano, cui si accede per una scala retrattile, sembra quella del famoso quadro di Van Gogh. Lí, viene da dire, il tempo si è fermato.

Quando si è trattato di realizzare il breve filmato trasfuso nel DVD presentato al Salone del Gusto del 2006, abbiamo pensato di iniziarlo proprio con l'inquadratura di Pietro che, inforcati un paio di straordinari occhialoni con una montatura nera che appartenevano a suo zio, batte la falce con il martello con precisione, apparentemente senza sforzo: segue il suo ritmo, scandisce il tempo.

Non è perciò vero che il tempo si è fermato: il tempo trascorre ad un ritmo biologico che accomuna l'uomo alla natura presente in quella nicchia ecologica, senza i cambiamenti impetuosi, le improvvise accelerazioni, che hanno contraddistinto la società industriale, creando quella distanza incolmabile fra passato e presente, fra contenuto dei ricordi e realtà osservabile che invece contraddistingue il racconto degli anziani che hanno abbandonato la campagna.

La battitura della falce è un grande esempio di sapere fare contadino, cioè di una conoscenza perlopiù di contenuto pratico e manuale, che comprende uno straordinario e ampio repertorio di gesti, di atti intellettivo-motori verrebbe da dire, eseguiti dai contadini e dalle rezdore modenesi in ultima analisi per produrre cibo e quant'altro necessario a sopravvivere, nella prima metà del secolo scorso, e che Pietro, come molti altri intervistati, soprattutto nell'Appennino, compie ancora.

Pietro ha imparato a battere la falce probabilmente guardando suo nonno o suo padre e poi provando a ripetere, come noi abbiamo imparato ad andare in bicicletta, ed oggi continua a farlo con la stessa naturalezza perchè fa parte della sua realtà; ma sarebbe stato più o meno lo stesso anche se avesse smesso da molti anni, come dimostrano i falciatori del centro anziani di Nonantola, nella sequenza successiva del DVD, dove il rumore ritmico del martello che batte sulla falce è sostituito da quello altrettanto ritmico della cote che la affila e poi delle falci sul prato.

Falciano e parlano in dialetto che, per chi non lo capisce, è un dolce brusio di sottofondo che suona, forse non tanto stranamente, perfettamente integrato e coordinato con quel movimento, quasi che il parlare (ma la mia è solo un'ipotesi) si sia evoluto da una comunicazione solo gestuale, proprio come possibilità di comunicazione mentre si fanno altri movimenti.

Il tema della conservazione della specifica gestualità che contraddistingue ogni attività, è centrale per chi si proponga di conservare il saper fare contadino, come emergerà meglio quando saranno disponibili tutti i filmati delle interviste.

Molti esempi, tuttavia, si ritrovano anche nel DVD dimostrativo:
- nella cottura delle crescentine nelle tigelle al camino, dove Rosa Biciocchi utilizza alternativamente le pinze sulle tigelle roventi e le mani sulle crescentine;
- nella cottura del borlengo, dove per Renzo Campioni la difficoltà sta nello spargere uniformemente la "colla" molto liquida sulla superficie calda della padella (il sole);
- nella raccolta di Augusta Guerzoni, in cima a una scala, della foglia dell'olmo, un tempo maritato alla vite, che poi veniva data da mangiare alle mucche; ma si raccoglieva anche la foglia del gelso, anch'esso maritato alla vite, quando si allevavano i bachi da seta, ed era un compito di grande perizia raccogliere su una scala di oltre 12 metri le ciliegie a Vignola;
- nel ritmico penzolare della canna di Augusto Malaguti da cui pende il fiocco a cui si attaccavano le rane;
- nell'eleganza del battitore di formaggio; "non bisogna battere forte, la prima battitura deve dare un segno giusto, e via!" sentenzia l'ultranovantenne Enzo Gavioli, il più anziano degli intervistati, ancora in perfetta forma ed al lavoro: un esempio simbolico della manualità di tutte le attività di trasformazione, dal parmigiano al maiale, al vino, all'aceto, al pane, fatte in modo artigianale;
- fino alla gestualità teatrale delle rezdore nel tirare la sfoglia con la cannella, nel tagliarla nei diversi formati, nel piegare con il mignolo il tortellino, ma anche nell'impastare, come ha giustamente fatto notare Alberto Fabbri nel vedere nel filmato Lidia Cristoni, la maestra di sfoglia dello chef Massimo Bottura, lavorare ritmicamente la pasta con tutto il corpo.

Si tratta di un argomento di straordinaria attualità anche in ambito scientifico: gli studi sul cervello ed in particolare sui neuroni specchio, a cui hanno da poco dedicato un libro molto tecnico ma di grande importanza due ricercatori italiani (Rizzolatti e Sinigaglia "So quel che fai" , R.Cortina editore 2006) che smonta la concezione che vi sia un prevalere del sapere sul fare, nel senso che prima si vede, si capisce e poi si fa, cosicchè il movimento (il fare) sarebbe un'attività puramente subordinata. Al contrario sembra che siamo dotati di un sistema di neuroni visuomotori che si attivano specificamente quando si tratta di vedere per il movimento e che sono responsabili del coordinamento di movimenti complessi come prendere in mano una tazzina, indipendenti dai normali circuiti della visione. Non solo, alcuni neuroni, che per questo sono stati chiamati "specchio", si attivano anche quando vediamo qualcuno altro fare una cosa e sono perciò coinvolti nell'apprendimento di tutte le attività che hanno a che fare col movimento e con il coordinamento del corpo.

Probabilmente la gestualità contadina costituisce un repertorio particolarmente significativo cui attingere per convalidare questa teoria.

In ogni caso dalle immagini delle interviste quantomeno si capisce che per tramandare saper fare come le crescentine nelle tigelle o la sfoglia non basta una loro descrizione scritta, sia pure in forma di ricetta.
La ricetta probabilmente attiva i neuroni specchio soltanto di chi ha una grande familiarità con la cucina, con quegli ingredienti, con quel tipo di piatto. La ricetta tramanda qualcosa che ha senso per chi sa cucinare: è un'unità culturale, un meme, secondo la definizione di Dawkins, l'autore de "Il Gene egoista", destinato ad essere trasmesso e ad evolversi nel tempo in funzione degli errori di trascrizione da un supporto cartaceo all'altro e degli errori di comprensione o delle piccole varianti deliberatamente introdotte che poi determinano un cambiamento nella trascrizione della ricetta, da un passaggio di mano all'altro. Quasi tutte le ricette che sono state dette a voce e che si possono ritrovare nei testi trascritti in questo volume, soffrono di questi problemi.

Ma probabilmente non è sufficiente neanche il filmato in cui si realizza il piatto e si possono vedere tutte le fasi della preparazione: certo è un grande vantaggio, ma ci vuole ancora una notevole capacità di comprensione e di interpretazione da parte di chi lo vede. Per chi non è mai stato ai fornelli è necessaria una scuola, come quella che hanno descritto praticamente tutte le rezdore intervistate, che hanno cominciato da bambine prima a guardare fare la sfoglia e poi a provare da sole, in piedi su un panchetto che consentiva loro di arrivare appena a poggiare le mani sulla spianatoia. E' lí che si attivano non solo i neuroni specchio ma anche tutti gli altri sensi, il tatto, l'olfatto, l'udito, il gusto, e l'apprendimento diventa un'esperienza multisensoriale. è questo il tramandare da una generazione all'altra ed è molto di più di una mera trasmissione orale.

Un altro aspetto da sottolineare è che il sapere all'interno delle famiglie contadine era allo stesso tempo estremamente diversificato ed integrato, perchè nessuno era in realtà uno specialista e la virtù, come insegna Aristotele, consisteva, pur in una certa divisione dei ruoli fra maschi e femmine, nel sapere fare bene più cose, nel campo, nell'orto, nel pollaio, nella stalla, in casa: Elisabetta Battilani e Luciana Nora ricordano come le spose dovessero comunque superare la prova della sfoglia e del cucito. Una virtù generalista che era apprezzata anche negli animali, come nella vacca bianca modenese che Bebo Ansaloni nella sua intervista, in dialetto, definisce "buona da tirare, buona da latte e buona da carne". Una concezione agli antipodi di quella tayloristica della parcellizzazione del lavoro alla catena di montaggio.
Nè si deve ritenere che questa impostazione fosse di impedimento allo sviluppo tecnologico, tant'è che il sapere comprendeva anche tutti gli strumenti di lavoro che spesso i contadini fabbricavano da sè ma di cui comunque conoscevano non solo l'uso ma anche come funzionavano e perchè: anzi è possibili rinvenire molti casi in cui sono stati sviluppatori di nuove tecnologie. Da lí nasce anche il culto per i primi trattori e le prime macchine agricole di cui certi contadini conoscono ogni puleggia, ogni ingranaggio, o la passione per le collezioni di arnesi, attrezzi, in una parola di cultura materiale, che si incontrano frequentemente: Remo Andreoni ad esempio mostra la cercia che non è altro che il correggiato, con cui si trebbiava a mano, Roberto Marchetti i bigonci per raccogliere le castagne, Remo Magnani anche lui i bigonci e gli altri oggetti legati alle castagne, come il graffio e la vassora, Italo Pedroni gli attrezzi appesi nell'acetaia per fare vedere la civiltà contadina, Bebo Ansaloni il giogo e la zerla, Giorgio Muzzarelli un piccolo museo.

La manipolazione di ciascun oggetto, come ricorda Clotilde Vandelli, che ha fatto un vero e proprio museo di se stessa, cioè degli oggetti che hanno avuto un ruolo nella sua infanzia, sostiene che la manipolazione degli oggetti richiama ricordi specifici, spesso più nitidi e significativi di quelli evocati dal semplice nome, forse proprio perchè, come sostiene ancora la teoria sui neuroni specchio, gli attrezzi e gli utensili diventano quasi estensioni del proprio corpo, tanto che i neuroni si attivano quando il terreno è a portata della falce che si tiene in mano, non meno che della mano nuda.

Nelle storie di chi ha lasciato definitivamente la campagna, nonostante nessuno rimpianga la povertà e gli stenti di allora, traspare una certa nostalgia, rammarico per la perdita di quella identità forte, fatta di saperi concreti e diversificati ed un certo disagio per la sua sostituzione con una molto più debole, in cui l'agiatezza apparentemente non fa mancare niente, ma si è costretti al ruolo di meri consumatori, che di ciò che hanno spesso non sanno quasi nulla, nè da dove viene, nè come è fatto, nè come funziona, nè tantomeno sono capaci di sfruttarne tutte le potenzialità d'uso o ne percepiscono compiutamente i rischi.


IV - Rapporto con la natura e la nicchia ecologica

Complementare a questo sapere generalista era la consapevolezza dell'importanza della biodiversità e della diversificazione nell'attività agricola, esemplificata tanto da un agricoltore biodinamico, come Felice Guerzoni, "c'erano un po' di mucche, un po' di grano, un po' di tutto perchè una volta l'agricoltura era fondata non sulla quantità ma sulla diversità", quanto da un proprietario terriero come Mario Schiavi che ricorda che l'agricoltura era basata su "stalle, latte, vite e cereali".

Ciò dipende dal fatto che l'attività agricola fosse contemporaneamente di produzione e consumo, perchè doveva garantire la sopravvivenza ed era perciò tesa a conoscere la natura per poterla utilizzare al meglio per le proprie necessità e solo dove era possibile produrre un surplus diventava un'attività rivolta al mercato.
Stupisce nelle interviste scoprire la quantità di vegetali e di cultivar per ogni singolo vegetale, di animali e di razze per ciascun animale che i contadini conoscevano, coltivavano, allevavano, in una parola con cui convivevano. Ma la capacità di convivere con gli altri organismi naturali era molto più penetrante di quanto non possa apparire a prima vista.

Un esempio è il lievito-madre, l'alvador in dialetto, che altro non era che un pezzo di pasta lievitata su cui usualmente si faceva una croce, conservato in uno straccio al buio, fino alla volta successiva, che poteva essere prestato ad altri e che veniva trasmesso di generazione in generazione. Tanti ci hanno raccontato della madre del pane, e tutte le madri sono andate irrimediabilmente perdute quando è stata interrotta la panificazione in casa, che si faceva una volta la settimana, spezzando il legame con quei lieviti che era una parte importante del più complesso e articolato rapporto quotidiano con molti altri microrganismi che comprendeva, tra gli altri, anche i microrganismi responsabili della fertilità presenti nel suolo e nella letamaia, gli enzimi e i fermenti del formaggio, i fermenti del vino, gli acetobatteri del balsamico e dell'aceto di vino, responsabili della qualità di molti dei prodotti di tradizione. C'è una bella immagine nell'intervista di Francesco Saccani, quando sottolinea che "le botticelle di balsamico sono un'eredità preziosa perchè sono una cosa viva, qualcosa che va sistematicamente accudito perchè altrimenti va in malora…e portano con sè la storia della famiglia, la storia delle generazioni". I contadini hanno accudito per generazioni generazioni di microrganismi, ottenendo prodotti straordinari.

Hanno imparato, al contrario, a contrastare altri organismi, dannosi, sia nei campi che per poter conservare gli alimenti, prevenendone il deterioramento con le tecniche più varie, alcune non cosí scontate, come: sotto lo strutto (la salsiccia, fonte Giorgio Gherardini) o la cenere (i salami, come raccontano Giovanni Sghedoni e Marta Panari), in mezzo alla farina pressata (le uova e il formaggio, ancora Sghedoni), nella calcina (le uova, raccontato fra gli altri da Clotilde Vandelli, Luciana Nora, Lorenza Grossi).


V - La trasformazione dell'agricoltura

C'è una breve, bellissima frase, una sorta di cammeo, nell'intervista di Giovanni Sghedoni che racchiude in una sola riga una storia lunga cinquant'anni, quella della trasformazione dell'agricoltura della pianura modenese: "invece di fare tre di latte, tre di uva e due di grano, adesso fanno mille di una qualità sola che se va male un mercato sei rovinato".

L'agricoltura della media pianura modenese era un'agricoltura ricca, caratterizzata, fino al dopoguerra, anche quando la proprietà dei fondi era molto più ampia, da poderi condotti a mezzadria con una dimensione media di circa 10 ettari, in cui veniva praticata una policoltura allevamento, che assicurava la ricostituzione della fertilità del suolo con la rotazione delle graminacee (soprattutto grano, dopo anche mais) con le leguminose (erba medica, erbe polifite), fissatrici di azoto, da cui si ricavava il foraggio per il bestiame. L'allevamento del bestiame in piccole stalle permetteva di sfruttare la triplice attitudine delle bovine autoctone, in particolare della razza modenese-valpadana, da lavoro, da carne e da latte, ma soprattutto permetteva, grazie alla letamaia, di restituire al terreno, gran parte di quanto era stato prelevato. Per di più le maglie poderali erano divise dai filari delle piantate di olmi maritati alle viti di lambrusco, particolarmente generose. In questo modo con latte, uva e grano si aveva un sistema agricolo capace di coniugare in modo sofisticato la conservazione della fertilità del suolo, con la biodiversità e l'economicità. Inoltre i mezzadri tenevano l'orto, alberi da frutta, animali da cortile e ingrassavano un maiale per le proprie necessità. Intorno alle aziende mezzadrili nacquero i primi piccoli caseifici che utilizzavano il latte per la produzione del parmigiano reggiano ma anche il siero per allevare i maiali che venivano poi destinati agli artigiani salumieri. Quanto all'uva, le prime cantine sociali per la produzione del lambrusco si svilupparono fin dai primi anni del novecento.

Il grande teorico di questo modello che riconosce che l'azienda agraria è diversa da tutte le altre aziende per la sua specificità biologica e che "la soluzione del problema economico della produzione richiesta dal mercato diviene perciò un problema subordinato, ma non per questo trascurabile, al problema biologico e agronomico, che è e rimane quello fondamentale" fu Alfonso Draghetti, che dal 1927 diresse la stazione sperimentale agraria di Modena – una delle prime italiane, fondata già nel 1871, dove si conserva un patrimonio inestimabile per lo studio dell'agricoltura modenese – che ha riportato i risultati delle sue ricerche in quella che è stata una sorta di bibbia per gli agricoltori, non solo modenesi, prima che prevalesse un modello di agricoltura basato sulla chimica, e cioè "I principi di fisiologia dell'azienda agraria", pubblicato per la prima volta nel 1948, da cui è tratta la citazione sopra riportata.

Le interviste ai contadini della pianura modenese ricostruiscono molti aspetti della storia di quel modello agricolo, anche con le sue contraddizioni, perchè non sempre la divisione paritaria del raccolto garantiva condizioni di vita decorose alle famiglie estese mezzadrili, come emerse con le lotte nel dopoguerra per una diversa ripartizione, culminate con il lodo De Gasperi, e del suo successivo disfacimento, anche se è stato straordinario scoprire il caso degli ultimi mezzadri, sopravvissuti a tutte le modifiche legislative, i fratelli Coppi, che ancora oggi ripartiscono al proprietario una quota del 35%. Esemplare il racconto di Bruno Fiorentini, mezzadro del parroco di Renno, che ricorda che nell'82 quando entrò in vigore la legge sul sostentamento del clero, prese in affitto il fondo dalla curia per 1,6 milioni di lire, mentre l'anno prima per la quota mezzadrile del 42% aveva pagato 13 milioni!

D'altra parte la mezzadria non era l'unico contratto agrario. In alcuni casi c'era la terziadria, un terzo al contadino e due terzi al proprietario, come per la coltivazione della castagna, perchè c'era da lavorare meno, come racconta Antonio Mazzieri. Romano Morselli ricorda di essere passato dalla terziadria alla mezzadria, smettendo d'essere mezzadro soltanto nel '79. La moglie Norma fino a che non si è sposata è stata in una famiglia che lavorava la canapa, anche qui con un contratto di terziadria ed ha sempre fatto la fame, soprattutto nel dopoguerra, e sottolinea l'abbondanza che ha trovato nella famiglia mezzadrile del marito.
C'erano poi i braccianti, i cammarant che andavano a giornata ed erano i più poveri, c'era la boaria (affitto di manodopera per allevamento di bestiame), tutti contratti che davano meno al contadino rispetto alla famiglia mezzadrile, il cui successo, come ricorda Luciana Nora, era anche dovuto al fatto di essere un'unità produttiva dimensionata rispetto al fondo, tant'è che vi era una prassi di cercare di tenere nascosti i nati in eccesso, nel timore che il proprietario potesse impugnare il contratto.

Dal dopoguerra, prima le lotte per la trasformazione della mezzadria, poi le nuove occasioni di lavoro negli anni della ricostruzione e del boom economico portarono ad un abbandono delle campagne ed al disfacimento del modello dell'azienda mezzadrile. Soltanto alcuni mezzadri diventarono proprietari, si diffusero le cooperative che lavoravano i fondi in economia, in generale l'agricoltura si trasformò sopperendo alla carenza di manodopera con una più spinta meccanizzazione. Soprattutto si diffuse un modello di agricoltura più decisamente orientato al mercato ed all'economicità della gestione, in particolare all'aumento delle quantità e delle rese ed alla riduzione dei costi. Prevalse una concezione opposta a quella di Draghetti, che concepisce l'agricoltura come un'attività economica come le altre, controllabile con la tecnologia: la selezione genetica viene orientata verso qualità a maggiore resa, verso cultivar più adatte alla meccanizzazione; i concimi chimici a base d'azoto sostituiscono l'apporto naturale dato dalla colture di leguminose e dal letame e spingono verso la specializzazione aziendale e le monocolture; imperversano in un primo tempo gli insetticidi, il cui uso viene poi temperato nella lotta integrata. L'industria arriva persino dentro le case contadine: come ricorda Umberto Neri, in tutte le campagne del carpigiano si diffusero i telai delle lavoranti a domicilio che portarono una notevole integrazione di reddito nel bilancio familiare.
Disma Piccinini racconta che arrivò a trasformarsi persino la partecipanza agraria di Nonantola, da sempre un modo per suddividere fra le famiglie dei partecipanti, a rotazione, i diversi poderi che perciò storicamente erano caratterizzati da una coltivazione molto differenziata che invece, con l'introduzione dell'affitto delle quote ad aziende agricole specializzate, vennero adibiti a monocoltura.

Queste trasformazioni hanno portato ad un'idea dell'attività agricola e di trasformazione come caratterizzata dalla specializzazione, un'attività che sforna prodotti assolutamente distinti uno dall'altro - il lambrusco, l'aceto balsamico, il parmigiano-reggiano, i salumi, la frutta, i cereali - ciascuno con la sua filiera a monte, con le sue distintività e con i suoi problemi.

I racconti dei contadini intervistati, viceversa, dimostrano che tutti i più famosi prodotti della gastronomia modenese – dalla sfoglia ai pani, al parmigiano, al prosciutto e gli altri derivati del maiale, al lambrusco e l'aceto balsamico - sono figli di un'unica madre, di quella agricoltura, fondata sull'azienda mezzadrile, sulla piccola scala, sulla qualità e sul rispetto dell'ambiente.

E' molto diverso il caso dell'alta collina e della montagna, caratterizzate da una agricoltura basata sulla piccola proprietà ma con risultati che spesso garantivano la sola sussistenza. Negli anni '40 la situazione non era molto diversa da quella descritta da Adolfo Ferrari nel 1882 in un articolo su "Lo Scoltenna" in cui lamentava l'arretratezza tecnologica – quasi tutto era fatto ancora a mano – e l'estrema frammentazione della proprietà contadina, fondata sulla coltivazione sulla coltivazione di cereali, di patate o di un poveretto con qualche albero da frutta, un po' di canapa o di lino, l'orto, pochi animali da cortile.

In alcune zone, nulla veniva prodotto per il mercato ed i contadini, come raccontano in tanti, per esempio Maria Ghiddi e Maria Casini dalla parte dei bottegai e Bruno Fiorentini e Dina Rossi dalla parte dei contadini, barattavano le uova per comprare un po' di zucchero, di sale o di olio.

In questo contesto, la rottura degli equilibri successiva alla seconda guerra mondiale non poteva che portare ad una vera e propria fuga dalle campagne, anche se l'emigrazione stagionale (i pastori transumanti, i boscaioli, gli scalpellini) o permanente (la grande migrazione degli anni '20) è sempre stata una costante nella storia di quelle terre.

Don Galli racconta la grande migrazione verso l'America degli anni '50: "metà dei miei parrocchiani sono in America, in particolare a Chicago", altri come Landina Piacentini, quella verso il Belgio, la Svizzera, la Francia. Anche Don Merciari ricorda che alcuni dei suoi dieci fra fratelli e sorelle sono emigrati in Francia, altri andavano dappertutto a fare la stagione o a servire nelle case. Lidia Ori è stata a lavorare a Milano, Livorno e Pisa; Domenico Bertogli a Firenze.

Andrea Pini ricorda che molti hanno cominciato ad andare a lavorare in ceramica come secondo lavoro, Bruno Fiorentini racconta dal '60 in avanti una vera fuga verso la ceramica.

Ma la testimonianza più straordinaria è certo quella di Nando Serradimigni, emigrato in Canada a fare il boscaiolo per più di cinquant'anni e tornato a Lago di Montefiorino dove vive solo con i cinghiali, i cervi e i caprioli, "proprietario del martello, della cazzuola, dell'organino a bocca e di un cappello di paglia che ho ritrovato e tengo ancora". "Vivo da povero, ma contento", dice, "la mia mente è sempre chiara, la libertà e la pace di cui godo qua non c'è in nessun altro posto".

In questo contesto di abbandono e di emigrazione risulta emblematica l'esperienza, raccontata da Don Merciari, Don Galli, Don Meliconi e da Celeste Fontana, dei parroci, che per contrastare il disfacimento delle comunità parrocchiali organizzarono una cooperativa fra di loro per comprare un trattore che veniva affittato a tutti i piccoli contadini che non potevano permetterselo e promossero corsi di agricoltura e agronomia. Poi si adoperarono per cercare di sviluppare uno spirito cooperativo fra i contadini per arrivare a produrre un prodotto per il mercato, attraverso la costituzione di caseifici sociali per la produzione del parmigiano reggiano. Infatti i contadini, che avevano solo pochi capi di bestiame, utilizzavano il latte per lo più per fare in casa qualche piccola forma di formaggio e vendevano le eccedenze. Soltanto con il conferimento del latte alle cooperative, si raggiunse la quantità di latte e la continuità di fornitura che permetteva di produrre il parmigiano reggiano e di migliorare il guadagno dei contadini. Cominciò Don Costantino nel '45-'46 a Frassinoro, ricorda Celeste Fontana, poi venne il Sassomorello, Fontanaluccia, Gombola, Costrignano, Monchio, Palagano,Vitriola, Rubiano.


VI - L'alimentazione contadina

Lo stereotipo delle cucina modenese ricca, grassa e opulenta è probabilmente figlio un po' della sontuosità e ricchezza dei banchetti della corte estense e delle altre corti della provincia, i vari Pio, Pico etc., dall'altra di un clima sociale, dal boom economico in avanti, di nuova ricchezza e di abbondanza in cui potevano diventare quotidiani piatti, come i tortellini, che prima erano riservati soltanto alle feste, mentre andavano piano piano sparendo i piatti più poveri che una volta avevano sostenuto l'alimentazione dei contadini.
Sono tantissime le informazioni contenute nelle interviste relative a cosa si mangiava.

Con la buona stagione si andava a lavorare molto presto nei campi e la colazione arrivava verso le otto e consisteva soprattutto di gnocco fritto in pianura e di crescentine in montagna: gnocco con una fetta di salume, ma più facilmente con l'uva, col melone, coi cipollotti, con niente come ricorda Maria Bozzali, crescentine col tradizionale condimento con il lardo. Ma Umberto Neri per esempio ricorda che arrivava una zuppa di acqua con burro e formaggio, Fausto Frigeri l'anguria col pane.

Poi a pranzo e cena, solo un piatto. Giovanni Sghedoni e la moglie ancora ricordano i sette piatti della settimana: domenica brodo, martedí e giovedí brodo, una volta maltagliati coi fagioli, mercoledí i maccheroni, venerdí minestra vedova (del condimento), uova o baccalà, sabato maccheroni con ragù.
D'inverno, ricorda Ada Menabue, solo due pasti: una volta maccheroni, una riso, una volta zucchine, patate in umido, patate e fagioli. Elisabetta Battilani ricorda soprattutto le verdure: passato di verdure, pasta e fagioli, patate cotte la sera.

A casa di Norma a mezzogiorno pucciavano in cinque il pane in un uovo con l'aceto, mentre a casa di Romano Morselli, il marito, mangiavano la polenta con la saracca.

La sfoglia si faceva, se non tutti i giorni, almeno tre-quattro volte la settimana e costituiva la base per alcuni dei piatti più diffusi, le tagliatelle e i maccheroni al pettine al ragù, i tortelloni di ricotta o di zucca, i maltagliati coi fagioli, i quadretti e i grattini da fare in brodo magari con l'uovo (con la concia, o in terdura).
Si mangiava bene solo a Natale, a Pasqua, per la sagra del santo patrono, ai matrimoni ed in alcune occasioni particolari in cui si riunivano più famiglie, per la zerla (l'aratura), per la trebbiatura, per l'uccisione del maiale.

Ovviamente il piatto principe delle feste era il tortellino in brodo, che resta il simbolo dell'abbondanza, un po' come il pane di Natale che, come acutamente osserva Luciana Nora, ha dentro di tutto, dal savor alle noci, i pinoli, l'uva secca ed una forma che ricorda molto il lievito madre, ma non mancavano gli arrosti, i lessi, le torte.

Ma anche nelle famiglie più benestanti c'era molta sobrietà: secondo Mario Schiavi il pranzo comune del modenese era la minestra asciutta o in brodo, poi la pietanza essenzialmente basata sul pollo, le sorelle Ghibellini ricordano che a mezzogiorno si mangiava minestra asciutta, pietanza e frutta e alla sera la minestra era sempre in brodo.


Il grano e gli altri cereali

La farina di grano tenero è certamente l'ingrediente fondamentale della cucina modenese: dal pane, alla pasta, alle torte, sono innumerevoli i modi in cui viene utilizzato, tutti ben documentati nei testi delle interviste e nelle decine di ricette che vi sono contenute.

Ma nelle interviste sono contenute preziose informazioni relative all'intero processo di produzione della farina di grano, nelle diverse aree geografiche ed alla sua evoluzione nel tempo.

Non c'è dubbio che il grano segni una netta demarcazione fra la fertilissima pianura e la montagna, dove, come dice Lorenzo Giovinetti, era la risorsa prima, la più ricercata, perchè difficile da ottenere.
Le interviste documentano l'evoluzione delle diverse qualità di grano, dagli anni venti in avanti, sia dalla parte dei contadini che dei mugnai, in montagna ed in pianura, ad esempio:

Montagna:
Lorenzo Giovinetti: ariettone (ariete), mentana, todoro 96. Dopo, le cultivar nuove, basse: belli, benedetto brin.
Roberto Marchetti: 96, Virgilio, mentana, san pastore
Lugi Serri: ariettone , mentana, argeri, 96
Sante Mucci: prima il mentana ottimo da pane ora il marzotto
I fratelli Santi: novara, mentana, torrenova, Virgilio, poi san marino, rosso gentile, e più recenti, mec, panda, bolero.
Renzo Bianchi: mentana, marzuolo, mieti, oggi il Bolero.
Bruno Cerfogli: il mentana faceva il pane più bianco, il rosso gentile più nero, c'era il torrenova.

Pianura:
Giovanni Sghedoni: dal mentana ai grani bassi come il Tevere, negli anni 50-60. Meno frumentone che andava di più oltre po.
Germano Serafini: il preferito e apprezzato dai mulini era il mentana.
Mario Schiavi: damiano e mentana negli anni ‘20, poi mara, marzotto, oggi mieti che fa 70 quintali l'ettaro: la crescita è dovuta alla selezione essenzialmente, sostenuta dai concimi. Il grano peggiore si fa a sinistra Po.
Romano morselli: il mentana dava 30 quintali per ettaro, l'ardito, bassetto rossiccio, più facile da tagliare, 45 quintali per ettaro, sempre col letame.
Fausto Frigeri: mentana, poi littorio, poi marzotto, mec, ora è l'era dei francesi.
Ezio Malaguti: il mais, il grano mentana, damiano chiesa.

L'elenco che precede dà un'immediata immagine dell'importanza della biodiversità e della selezione genetica, nonchè delle differenze territoriali (il marzuolo che era un grano che si seminava in montagna appunto in marzo, quando andava via la neve, con un ciclo di coltivazione molto più rapido). Dietro questi passaggi da una qualità all'altra che danno una testimonianza, fra l'altro, della battaglia del grano, durante il periodo dell'autarchia fascista (il littorio, l'ardito), c'è stata la ricerca di rese superiori (si è passati dai 10-15 quintali per ettaro coltivato ai 70 attuali) ma anche di qualità che crescevano meno, meno soggette ad essere allettate dal vento e dai temporali e perciò più adatte alla mietitura meccanizzata. Ma se si parla di qualità, emerge una convergenza di opinioni sul fatto che il migliore, per la farina e per il pane, fosse il vecchio mentana, che qualcuno, come i mugnai Santi, ha recuperato, insieme ad altre qualità.

Spesso, soprattutto in montagna, non c'era l'idea di una misura della produttività legata alla terra, bensí al rapporto fra seminato e raccolto: sempre Giovinetti, a seminare 20 quintali di grano se ne raccoglievano 200-220. Dice la stessa cosa anche Francesco Serri. Secondo Sante Mucci prima rendeva 10 semente per quintale (anni 50) oggi 20. Anche questo un segno di una concezione dell'agricoltura diversa da quella che mira soprattutto allo sfruttamento del terreno: per i contadini proprietari il costo non è il terreno, sono le sementi e le altre materie, i cancheri, come dicono in molti, che ci vanno messi.

Alla coltivazione del grano sono legate attività che un tempo venivano svolte solo con l'aiuto degli animali, l'aratura, la semina, la mietitura, la trebbiatura. Germano Serafini ricorda anche in pianura zappare a mano o arare con l'erpice coi buoi, poi si seminava a mano: "qualche persona anziana che aveva un pugno favorevole, la spargeva in modo uniforme". Un altro gesto che ormai in pochi sanno fare. Ma l'aratura era anche un momento di reciproco aiuto: la zerla che, come spiega Bebo Ansaloni, era lo strumento che consentiva di legare le vacche bianche modenesi davanti ai buoi per aiutare a trainare l'aratro pesante, diventò sinonimo dell'aratura profonda, un lavoro impegnativo in cui si dovevano coinvolgere altri contadini, ad esempio i vicini. Altri ricordano la mietitura a mano con la falce, la legatura dei covoni, Giuseppe Fontana descrive la costruzione delle medde, cumuli di covoni, veri e propri campanili, che servivano a riparare il grano in montagna nell'attesa che arrivassero le trebbiatrici meccaniche, che partivano dalla pianura, come ricorda Bruno Cerfogli e risalivano verso l'alto, impiegandoci anche un mese un mese e mezzo. Ma prima della meccanizzazione si trebbiava a mano col correggiato, o con le mucche a cui veniva legato il sas o piastron.

D'altra parte Giovanni Sghedoni ricorda di aver acquistato il primo trattorino nel '53, Romano Morselli 32 anni fa.

è molto interessante anche la documentazione delle rotazioni con le leguminose, soprattutto con l'erba medica che servivano a ridare fertilità al terreno:

- Roberto Marchetti: la rotazione con la medica ma anche il favino che davano alle bestie
- Claudio Poggioli: 4/7 anni di medicaio o polifita, poi uno o due di grano o orzo
- Giuseppe Fontana: con il trifoglio per migliorare i terreni, con la medica
- Francesco Serri: il granturco in primavera, poi il frumento in autunno, il secondo anno la medica in mezzo al grano quando era piccolino. La fava nei campi magri da dare al bestiame
- Mario Schiavi: erba medica e poi grano. Oggi, grano e granone: la fertilità si regge su quello che è stato fatto in passato. Un periodo si ruotava con la soia. Con la barbabietola si faceva bietola, medica e grano
- Sante Mucci: 4/5 anni la medica, uno il grano, uno l'orzo
- Romano Morselli: medicaio massimo cinque anni, poi frumento, se possibile anche due raccolti, dopo il frumento, granturco ma seminato fitto per le bestie, oppure, da dopo la guerra, barbabietola da zucchero
- Fausto Frigeri: tre di medica, grano, barbabietola da zucchero

Non esisteva la monocoltura specializzata. Il grano ci conduce ad altri cereali che venivano alternati come l'orzo, la segale in montagna,il misto di orzo e avena perle bestie era chiamato scandela, secondo la testimonianza di Giordana Contri, il farro reimportato dalla Toscana e, soprattutto alla produzione di mangime per gli animali, in particolare i bovini. Un capitolo a parte meriterebbe il mais le cui diverse cultivar, ad esempio sono descritte da Ezio Malaguti, Romano Morselli e Fausto Frigeri, che anche in questo caso descrivono il passaggio da specie a bassa produttività – allora si faceva 15 quintali la biolca – ad ibridi molto più produttivi ma di qualità peggiore.


La barbabietola

Si diffuse soprattutto nel dopoguerra in pianura, divenendo la principale produzione agricola destinata soltanto alla trasformazione industriale per produrre zucchero, in grave crisi negli ultimi anni. Ne parla a lungo Fausto Frigeri che descrive le cultivar più adatte ai diversi terreni, quelle precoci e le tardive.


Il mugnaio

Un mestiere davvero centrale, anche dal punto di vista sociale, quanto, dopo, quello del fornaio. Sembrerà strano ma, soprattutto in montagna, esistono ancora diversi mulini ad acqua funzionanti.

Renzo Bianchi di Casa Mazzone ricorda che macinavano soprattutto grano e castagne, ma anche le ghiande per il bestiame. Sottolinea l'importanza delle diverse qualità di farina (più o meno crusca). Ricorda che come paga il mugnaio tratteneva il 5% della farina, ora meno.

Ezio Malaguti macinava il mais, il grano, l'orzo per i maiali. La paga era del 2-3%. Durante la guerra si faceva l'olio con i gramustein dell'uva.

Anche i Santi a Trentino macinavano per famiglie e per animali: grano, castagne, orzo, granoturco, avena, fave, veccia, cicerchia e ghiande. Scardavano il seme dell'erba medica.


Il pane e i fornai

Tutti raccontano che il pane si faceva in casa nel forno a legna usando il lievito madre, più o meno una volta alla settimana, perchè il pane durava quei giorni senza perdere qualità. Landina Piacentini ricorda che nella zona di Frassinoro si aggiungevano sempre un po' di patate perchè l'impasto si manteneva più morbido; alla fine si faceva la crescenta con un po' di strutto e rosmarino, un'usanza molto comune anche altrove.

La farina era conservata nelle panere e per impastare si usava la gramola, un compito piuttosto impegnativo, cui partecipavano anche i maschi; lo ricorda per esempio Ada Menabue, e Luciana Nora sottolinea come proprio l'operazione di fare il pane, con un alto valore simbolico, impegnasse l'intera famiglia. Tanti ricordano i diversi formati del pane.

Il fornaio Marino Zoboli ricorda che i forni inizialmente venivano solo affittati, cosí come Pasquale Pagliai che ricorda il padre che aprí un forno a Pievepelago negli anni 20 che cuoceva il pane per i contadini e per pasqua e natale i biscotti. Ermanna Corbelli che, quando i forni si raffreddavano, si portavano a cuocere le torte e il bensone, Milena Bononcini le teglie di lasagne.


La patata

La patata è un prodotto importante soprattutto per la montagna, in particolare nella zona di Montese: Roberto Marchetti si scatena a raccontare tutte le cultivar, descrive l'evoluzione del rapporto fra sementi e raccolto, allora 1 a 20, oggi a 25-30. Ma importanti testimonianze sulla coltivazione della patata e sull'uso della patata in cucina, in particolare sulla torta di patate, sono state raccolte anche nella parte ovest dell'appennino (Renzo Capitani, Delio Albicini, Landina Piacentini).

Delio Albicini ricorda che durante la guerra c'erano i controlli sul grano (l'ammasso) ma non su patate e castagne. Anche Don Galli ricorda l'importanza della patata, che non era controllata e qualcuno (Dina Rossi) ricorda che veniva sempre aggiunta alla farina per fare il pane.


La castagna

C'è un bel passaggio nell'intervista di Lorenzo Giovinetti, quando risponde che a casa sua si mangiava polenta perchè c'erano tanti ragazzi. Il lettore automaticamente pensa allo stereotipo della polenta con la saracca che pendeva al centro della tavola e tutti che strofinavano la polenta di granoturco (racconto qui di Romano Morselli). Lui invece sta pensando alla polenta di castagne, che mangiavano con panna e ricotta. Poi parla anche di quella di mais. Questo dà subito la misura dell'importanza della castagna ed in particolare della farina di castagne per l'alimentazione e la sopravvivenza della popolazione della montagna, testimoniata in decine di interviste e di ricette. I Seghi non ne potevano più di mangiare castagne, Pietro Ferrarini invece che quando uno è abituato, è abbastanza buona.

Di fatto oggi si coltivano soprattutto i marroni e sono stati praticamente abbandonati i castagneti delle principali cultivar da farina, a iniziare dalla pastonese, salvo alcune eccezioni, fra cui ad esempio quella di Remo Magnani, che sono ritornati a tener puliti, a nettare come sottolinea Almo Pasquali, i castagneti, facendo le roste, piccoli solchi che fermino le castagne che cadono, ed hanno rimesso in uso i metati, cioè gli essiccatoi dove venivano portate le castagne per essere seccate, poi pulite e portate al mulino per la macinazione.

Un tempo c'erano centinaia di metati, si può dire che quasi ogni casa o piccolo borgo l'avesse ed è ancora vivido il ricordo in molti intervistati di tutte le operazioni della raccolta - si usavano i bigonci, per ogni tre di prodotto fresco se ne otteneva uno di secco - dell'essiccazione - durava più settimane, bisognava tenere vivo il fuoco giorno e notte, l'operazione più difficile era quella della voltatura per rendere uniforme l'essiccazione delle castagne – della pelatura – ancora a mano con un bastone speciale, il graffio, con cui si pestavano le castagne nei bigonci e poi con la vassora per eliminare le bucce, ma alcuni ricordano le prime macchine inventate per meccanizzare questa faticoso passaggio.

Come si è detto, durante la guerra, la castagna non fu soggetta all'ammasso ed il suo ruolo per l'alimentazione venne amplificato. Ma non solo, la castagna diventò la principale fonte di commercio con la Toscana: Delio Albicini ricorda che si scambiavano dieci chili di farina di castagne per uno di sale; Don Galli parla anche di grano contro damigiane di acqua di mare.


I bovini

Per i modenesi i bovini sono le bestie, l'animale più importante perchè veniva utilizzato sia da lavoro che per il latte (c'erano modenesi che lavoravano e facevano dieci litri di latte ricorda Giovanni Sghedoni) che per la carne (Don Merciari ricorda che gli unici soldi che vedeva la sua famiglia derivavano dalla vendita di alcuni vitelli).

La storia dei bovini raccontata nelle interviste è molto diversa tra la pianura e la montagna.
In pianura era presente soprattutto la vacca bianca modenese-valpadana, il cui latte era utilizzato per la produzione di parmigiano reggiano nei caseifici. La sua sostituzione, soprattutto dal dopoguerra in avanti, con la razza frisona, la razza lattifera per eccellenza, fu dovuta sia alla meccanizzazione dell'agricoltura che limitò alla sola produzione di latte l'uso della bianca che alla circostanza che produceva meno latte.

Giovanni Sghedoni ricorda anche come avvenne questa sostituzione, incrociando inizialmente il maschio olandese con la vacca modenese. Per Siro Tassi, che non ha mai abbandonato del tutto la bianca, come molti altri allevatori che sono cosí diventati i custodi di questa razza, la bianca è meglio della frisona perchè vive più a lungo e figlia sempre, perchè è più buona la carne ed è più buono il latte, ha tutto un altro sapore, un altro odore. Marino Mongiorgi arriva a sostenere che la carne di bianca è superiore a quella della razza romagnola.

Ma al di là delle partigianerie, la scelta di concentrare tutto sulla frisona, ancora una volta risponde a pure logiche industriali e dimentica la lezione della tutela della biodiversità come mezzo per coltivare la qualità. Tant'è che molti di quelli che le hanno abbandonate per passare totalmente alle frisone, rimpiangono le modenesi: ad esempio Romano Morselli afferma che erano meglio perchè erano molto brave da lavoro (i buoi all'aratro e le bianche davanti), è vero facevano al massimo 15 litri contro i 25-28 della frisona, ma il latte era meglio, la carne è di qualità e buona. Rivela che le ha lasciate perchè il latte veniva pagato a quintali e non in base alla qualità: una testimonianza illuminante che rivela che può esserci un futuro per la vacca bianca modenese, oggi a rischio di estinzione ed oggetto di un presidio da parte di Slow Food in collaborazione con la Provincia di Modena se il latte, ed il formaggio viene pagato in base alla qualità. E la qualità dipende dalla razza, ma anche dall'alimentazione: come afferma ancora Marino Mongiorgi "il latte prima di tutto viene per la bocca" (per ciò che mangiano le bestie); Claudio Poggioli sottolinea l'importanza dell'alimentazione: mais, orzo, erba medica, favino; Giovanni Sghedoni ricorda che al mattino gli davano la foglia dell'olmo, cosí come Umberto Neri e, ovviamente, Augusta Guerzoni che si è prestata a raccogliere la foglia in cima all'olmo che Clotilde Vandelli, nella sua intervista, chiama l'albero della foglia.

D'altra parte l'importanza della qualità del latte è sottolineata in altre interviste anche da un altro punto di vista, quello della produttività in termini di rapporto fra latte e produzione di ricotta e formaggio: Enzo Gavioli ricorda che la bianca modenese dava il 10%, papà Muzzarelli ricorda il 9,2% delle nostrane contro non più dell'8% di adesso. I dati di Celeste Fontana sono lapidari in fatto di rapporto inverso fra quantità e qualità: una volta ci volevano 11-12 litri di latte per fare un chilo di formaggio, oggi ce ne vogliono 17, ma le mucche sono passate a produrre dai 6/7 litri di allora ai 30/40 di oggi.

In montagna invece per lungo tempo, finchè gli animali sono stati usati per il lavoro dei campi, ci sono state le vacche grigie montanare, derivate dalle garfagnine, di cui oggi non si trova più alcun esemplare, erano animali che prevalentemente stavano al pascolo e che producevano pochi litri di latte. In montagna le bianche si diffusero solo in alcune zone, in particolare nella Valle di Fellicarolo come ricorda nella sua intervista Piero Cantelli, e nell'alta collina, dove però vennero sostituite dalle brune alpine e poi dalle frisone.

Sono molto interessanti alcuni racconti sul commercio del bestiame con la Toscana, per esempio quello dei Bernardi che ricordano che si faceva rigorosamente a piedi fino ai primi anni '50: prima si andava a prendere le vacche grigie, poi il flusso si inverte e si vanno a vendere le brune alpine in Toscana. Remo Andreoni racconta che in toscana si portavano i vitelli e si compravano i maiali. Domenico Bertogli di Boccassuolo conferma che si portavano i vitelli e le trippe a Rifredi.

Un altro mestiere legato soprattutto ai bovini era quello dei veterinari, ed è molto interessante l'esperienza di Franco Ternelli fra castrazione dei tori, inseminazione, la gravidanza e il parto, interventi per sgonfiare gli animali che avevano brucato l'erba medica brucata. La coltivazione dell'erba medica è stata una delle ragioni che ha visto prevalere la stabulazione fissa degli animali, rispetto all'allevamento a pascolo brado o semi brado. Infatti l'erba medica può essere mangiata solo tagliata, brucandola gli animali si gonfiano.
Sante Mucci ricorda invece quando tenevano il toro per fare la monta pubblica: un toro di bianca modenese un po' svogliato, ed un toro rosso che invece lo faceva cinque, sei volte al giorno.

I macellai, come Pierluigi Galli, Renzo Capitani o Maria Casini che vendeva la carne nella sua bottega, ricordano che i contadini non la compravano.

Un ultimo aspetto legato alle stalle ed all'allevamento è quello del letame, della produzione di concime naturale, una vera arte, come insegna Draghetti nel suo libro, perchè al termine del processo il letame deve essere quanto di più vicino a quello che produce, ad esempio, la decomposizione organica in un sottobosco ed i relativi profumi. E se Felice Guerzoni parla del suo "cumulo biodinamico", Zeno Vezzalini ricorda come si teneva la lettiera ed il letame che stava lí un anno, diventava nero ed aveva un odore buono; Luigi Serri che il letamaio si teneva coperto; Sante Mucci che si aggiustava il letame quando si puliva la stalla, un giorno si e un giorno no, si teneva murato, fuori il cumulo essiccava. Poi, si usava poco mangime perchè è quello che fa scorrere e rovina il letamaio.


Il maiale

Un vero allevamento di maiali c'era soltanto nelle porcilaie accanto ai caseifici, dove i maiali venivano nutriti con il siero. Lo ricordano Clotilde Vandelli e Mario Schiavi che avevano dei caseifici: i maiali venivano venduti al mercato agli ingrassatori o direttamente agli artigiani che lavoravano le carni e producevano.

Tutti gli altri contadini tenevano uno, due maiali per le esigenze della propria famiglia, qualche volta uno da vendere. Norma Guerzoni ricorda che quando uccidevano il maiale erano talmente indebitati che la carne la davano tutta al bottegaio, Raffaella Baldoni a Montecenere ricorda che avevano una bottega che vendeva sale e zucchero e cominciò a prendere in cambio le cosce dei maiali e a stagionarle, un'attività che si sviluppò poi negli anni '50 stagionando i prosciutti per i salumieri di pianura come Maletti o Palmieri.
Ternelli ricorda che i contadini ai maiali davano la roba loro, granoturco orzo e in autunno la ghianda, Sante Mucci che gli davano la lavatura delle stoviglie.

Tutti concordano che l'animale doveva diventare molto grasso e che più alto era il lardo è meglio era, perchè i contadini avevano soprattutto bisogno del lardo per il condimento e dello strutto per friggere. Antonio Mazzieri ricorda che vendevano il prosciutto e cercavano il lardo, Lorenzo Giovinetti che il maiale valeva per il lardo, per questo lo tenevano 17-18 mesi, Pietro Gherardini che li tenevano 14-15 mesi finchè il lardo aveva uno spessore di 12-15 cm, Francesco Serri che per fare un maiale di due quintali ci voleva un anno e mezzo,li tenevano 17-18 mesi perchè facessero lardo. Mario Malavasi che li tenevano da 15 a 18 mesi e che erano neri e bianchi e neri. Quest'ultima notazione è interessante perchè in una provincia dominata dal Large White, sentire parlare di maiali con un colore diverso fa subito pensare alla presenza di razze autoctone, poi sostituite. Il materiale della ricerca non sembra fornire una documentazione conclusiva in proposito, anche se il padre di Adalgisa Sghedoni diceva che i maiali modenesi erano quelli bianchi e neri, avevano un lardo molto alto, invece i bianchi reggiani meno. Certo è che fino a che il maiale è stato allevato in casa si cercavano razze con un alto rapporto fra lardo e carne, dopo la selezione genetica richiesta dal mercato delle carni e dai salumieri ha portato ad un contenimento di tale rapporto: secondo Giovanni Sghedoni gli ibridi di adesso di sue quintali hanno un lardino alto cosí, prima a parità di peso era molto più alto.

Spesso per ammazzare il maiale le famiglie erano aiutate dai pcar , i norcini che avevano i coltelli e le attrezzature per tagliare il maiale e preparare gli insaccati. Un lavoro che alcuni facevano anche gratis o in cambio di un compenso in natura ma che li portava, nel periodo invernale, a fare scorpacciate quasi tutti i giorni perchè per l'uccisione del maiale si faceva festa, come ricordano i vari Bebo Ansaloni, Giorgio Gherardini, Mario Malavasi.

Di norma si faceva la salsiccia, i cotechini, i ciccioli pressati (nella bassa anche quelli frolli), la pancetta distesa ed arrotolata, la coppa, la coppa di testa ma, in appennino, anche la spalla arrotolata, come ricorda Giorgio Gherardini, le costolette salate e messe sotto aceto o in pianura, come ricordano Bebo Ansaloni e Marta Panari, la salsiccia matta con polmone e lingua. Il sangue veniva utilizzato subito per fare delle frittelle, reni e polmone per condire il risotto, il fegato veniva cotto nella rete.

Una notazione interessante, comune a tutti i norcini intervistati, è la costante riduzione del sale nelle conce del salame dovuta al fatto che se ne mangia molto di più che una volta.


Gli animali da cortile

Tutti i contadini raccontano che tenevano animali da cortile, galli e galline, faraone, tacchini, conigli, anitre, qualcuno oche, qualcuno ricorda anche le diverse razze. Molti avevano le piccionaie ed usavano i piccioni per fare i maccheroni al torchio al ragù di come racconta Maria Beneventi di Acquaria. Disma Piccinini parla dei colombi triganini e di quelli sottobanca, i primi utilizzati per le gare di volo acrobatico – famose quelle dalle altane di Modena – i secondi, più grassi, solo da mangiare.

Ciò che è interessante è che gli animali da cortile non erano fuori dal contratto di mezzadria, perchè allevati con risorse del fondo: era previsto che i contadini facessero le onoranze, dettagliatamente previste nelle consistenze e nella qualità nel contratto, come ricorda Luciana Nora e, dal punto di vista dei "signori" le sorelle Ghibellini che a Natale, quando arrivavano i contadini vedevano riempirsi la capponaia.

A proposito di capponi, Milena Bononcini ricorda che l'operazione di castrazione dei galletti era tipicamente femminile e racconta come la faceva.


L'orto

Tutti avevano l'orto e nell'orto si teneva un po' di tutto, in modo che la verdura costituiva un elemento essenziale dell'alimentazione contadine. Adalgisa Sghedoni ricorda peraltro che il padre che era ortolano andava a Scandiano a vendere le verze, i pomodori. Deanna Guidetti ricorda che per l'orto si guardavano le lune e che il prezzemolo va seminato con luna calante, Giorgio Boccaleoni che c'erano specie che stanno scomparendo come la zucca cappello da prete, ottima per fare i tortelloni di zucca.


Le ciliegie

Un capitolo a sè merita la coltivazione delle ciliegie, in particolare nella zona di Vignola. Ne parlano in modo approfondito Quinto Berselli e Luigi Ori, che descrivono tutte le cultivar. Il terreno adatto. Dai loro racconti emerge come nel caso della ciliegia il cambiamento delle varietà coltivate non sia tanto dovuto all'incremento delle rese e delle quantità a scapito della qualità, quanto soprattutto all'evoluzione del concetto di qualità verso prodotti più belli da vedersi,ma meno da mangiarsi e verso una semplificazione della produzione: qualità che fanno piante più basse, più facili da raccogliere, autofertili, che vanno in produzione prima. Questo ha portato ad un progressivo abbandono dei cultivar che avevano fatto la fortuna di Vignola, dalla ciliegia moretta ai duroni Nero I , II e marchigiano, e ad una modificazione del paesaggio agrario, una volta dominato da queste grandi piante alte anche 15 metri.

Pasquale nobili ricorda che faceva la stagione della raccolta in cima a una scala di 14 metri, Luigi Ori che lassù in cima alla scala era come un uccello, stava da re.


Altra frutta

Come per l'orto, un po' tutti avevano alberi da frutta e questi frutteti erano una vera miniera di biodiversità: le specie erano scelte per cercare di allungare il più possibile il periodo di disponibilità della frutta, quelle precoci, quelle che maturavano in stagione, le tardive, quelle più facili da conservare anche dopo la raccolta.

I testi delle intevriste sono un piccolo giacimento di specie perdute o quasi di mele, pere, prugne, fichi, cocomere, meloni anche se molti intervistati come Giorgio Boccaleoni e Giuseppe Scorzoni hanno conservato frutteti con molte di queste specie.


Le conserve

Ai prodotti dell'orto ed alla frutta è legato un altro tema importante, quello delle conserve, un'operazione che si faceva durante l'estate quando all'aperto si accendevano i fugoun, come ricorda Mirella Fiandri, per la conserva di pomodoro e per l marmellata. Molte interviste parlano delle diverse marmellate che venivano fatte, su tutte principe il savor che al mosto cotto (alla saba) univa l'altra frutta, pere, mele. Ci sono state descritte molte varianti del savor, che Luciana Nora ritiene fosse pe ri contadini l'apoteosi delle confetture e che proprio per questo avesse quel nome, come il savor con la barbabietola al posto del mosto cotto nelle terre bonificate da Carpi verso Reggio, sempre citata da Nora, ed il savor con l'anguria bianca descritto da Fausto Frigeri. Altra ricetta particolare la mostarda fine di Carpi, di origine estense, reinterpretata da Carlo Rossigni utilizzando le straordinarie mele campanine al posto delle introvabili gagliardine.

Quanto alle verdure, oltre al pomodoro, ai piselli, alle cipolline,molto comuni, si facevano le salse per i bolliti, a base di verdure in agrodolce una, salsa verde l'altra: ne parlano diverse rezdore, ma soprattutto Lorenza Grossi che ha recuperato anche la ricetta del cren (salsa di rafano), sempre da accompagnare al lesso, che a casa sua veniva fatto col balsamico ed invece, normalmente, con l'aceto di vino. Mirella Fiandri, ricorda un'altra sfilza di conserve, dai fagiolini ai cetrioli sotto aceto, i peperoni, i capperi che nella zona delle Salse di Nirano sono un prodotto particolare.


La vite, l'uva, il vino e l'aceto

L'uva è una materia prima fondamentale nella gastronomia modenese, non solo per il vino ma anche per il mosto cotto e i suoi derivati, i sughi, la saba, il savor e, soprattutto l'aceto balsamico. Sono prodotti molto conosciuti su cui si è scritto molto.

Nelle interviste si è cercato di approfondire soprattutto alcuni aspetti, anche molto particolari, che tuttavia contribuiscono ad una riflessione critica sull'argomento.

Come si è detto, in pianura c'erano i filari maritati all'olmo, in collina al gelso e, più in alto, anche all'acero oppio come ricorda Marco Mesini: Vittorio Graziano tuttavia ci ha fatto vedere a Castelvetro una vigna centenarie di grasparossa ad alberello con una densità di diecimila piedi per ettaro, un record per il lambrusco.

Zeno Vezzalini e Giovanni Sghedoni ricordano che i filari si potavano un anno si ed un anno no ed in quell'anno si diceva che la vite andava in frasca.

Tanti ricordano la fillossera ed il passaggio dalla vite su piede franco a quella su porta innesto: i produttori della montagna ricordano che questo portò ad interrompere la pratica di rinnovare le viti scavando delle grandi buche e piantando le talee.

C'è poi il tema dei vitigni, oltre ai classici lambruschi (Sorbara, Salamino, Grasparossa), ai trebbiani utilizzati per il vino bianco ma anche per il mosto per l'aceto, Bruno Bellei rimpiange una qualità di uva d'oro che usava da taglio e che secondo lui era meglio del salamino. L'uva d'oro (la fortana) ce l'ha ancora Felice Guerzoni e Loredana Semeghini fa la marmellata d'uva d'oro. Novello Cristoni parla dell'Ancellotta, Italo Pedroni del ruggine, un vitigno raro che ha recuperato e che vinifica. Zeno Vezzalini chiarisce che l'uva covra era l'uva nera comune. L'uva grezzana bianca con cui si faceva il vin soupè veniva anche conservata nei solai. Romano Morselli ricorda sorbara, salamino, grasparossa, uva d'oro, uva ciuchela bianca con dei chicchi grossi, facevano vino bianco dolce (ma che uva è?) e che tenevano l'uva attorno ai travi nel soffitto delle camere fino a natale.

Fino all'approvazione delle DOC c'era molta libertà nel determinare la cuveè: Giovanni Sghedoni ricorda che nel vino si mischiava tutto e cita un proverbio, par frument e vein mistura.

Ada Menabue chiarisce che la parte d'uva di spettanza del proprietario finiva alla cantina, quella del mezzadro, facevano il vino in casa per sè. Ma molti contadini vendevano il loro vino o l'uva a privati: ancora Giovanni Sghedoni ricorda che vendeva il vino ai commercianti. Bruno Bellei ha sempre comprato il vino dai contadini.

I contadini hanno sempre continuato a fare la vinificazione tradizionale con la rifermentazione naturale in bottiglia, come ha sempre fatto con fierezza Bruno Bellei.

Vittorio Graziano ricorda che non si faceva il Grasparossa in purezza,se ne usava solo 50-60%, per il resto si metteva un po' quello che si aveva, per il resto un misto di vitigni locali che davano maggior vigore. Ricorda come si faceva la vinificazione, ovviamente solo con lieviti propri e senza alcun controllo della temperatura; la fermentazione veniva rallentata coi travasi.

Ma i racconti più interessanti sono quelli della montagna, quelli di Cesare Bonacorsi, Dino Bonaccorsi e Giulio Gaetti, Sante Mucci , Marco Mesini. Il vino della montagna era basato sull'uva tosca che tutti giudicano indispensabile ma che nessuno di loro fa in purezza (solo la Podesteria di Gombola): la tagliano, chi come Mesini con l'uva covra per due noni, chi come Cesare Bonaccorsi, con il lambrusco. Attraverso le loro testimonianze si ricostruiscono le esposizioni migliori dell'Appennino, Castellaro, Olina, Gombola, Lago, l'elenco dei tanti vitigni utilizzati, di cui sono fieri custodi, i racconti della viticoltura di quelle zone cosí che è possibile cominciare a riannodare i fili di una storia, quella del vin tosco o del vino da monte, di grande tradizione – il Duca di Modena aveva le vigne ad Olina – e che si riteneva perduta.

Per quanto riguarda l'aceto balsamico tradizionale, l'intervista a Francesco Saccani è uno straordinario racconto di come quel prodotto sia divenuto il simbolo dell'eccellenza di questo territorio, ma anche una carrellata sui problemi che restano aperti, quella a Italo Pedroni, la testimonianza di un grande appassionato, oltre che profondo conoscitore del prodotto e dei problemi relativi alla sua produzione e degustazione. Il contributo di Ernesto Stanzani mette in luce come il fascino del balsamico abbia portato in un'area ristretta e ben definita, intorno a Castelvetro a diffondersi l'uso di produrre il balsamico tradizionale a partire dalle mele invece che dal mosto cotto.

Per il resto l'aceto balsamico tradizionale non era certo diffuso fra i contadini, ce l'avevano, fra gli intervistati, le famiglie benestanti, i Grossi, i Vandelli. I contadini avevano l'aceto di vino; come racconta Giovanni Sghedoni avevano una damigiana bella larga e ci mettevano dentro tutti gli avanzi. Poi facevano la saba con il mosto cotto, ed oltre ad utilizzarla per il savor,a mangiarla con la neve, come ricorda Stanzani, è possibile che la tagliassero con l'aceto di vino , come fece Ludovico Ariosto, citato da Saccani nella sua intervista "che non si piegava al volere dei duchi ma preferiva cuocersi da solo una rapa e mangiarsela condita con aceto e sapa". E poichè aceto forte o di vino e mosto cotto o concentrato sono gli ingredienti dell'aceto balsamico di Modena…


La canapa

La coltivazione della canapa era diffusa soprattutto nella pianura verso Bologna: la descrivono bene Elisabetta Battilani e Germano Serafini che la lavorarono dal 1930 al 1950, dallo spuntare delle piantine, quando bisognava far scappare gli uccellini, al taglio coi falcetti,al macero, all'essicazione. Romano Morselli e la moglie lo ricordano come un incubo: "era faticoso, la canapa bisogna nascerci per saperla lavorare bene". In realtà un po' di canapa c'era da sempre anche in montagna. Livio Migliori ricorda che la coltivazione della canapa era descritta negli statuti comunali di Riolunato del 1492, cosí come le vigne e le bandite (pascoli) comunali, Almo Pasquali che la località di Canevare si chiama cosí per via della canapa.


La pesca

Al di là del baccalà e delle frittelle di baccalà, uno dei piatti più descritti, delle saracche con la polenta, della pasta con le alici da mangiare la cena della vigilia, sono poche le citazioni relative al pesce. Una delle più belle è la descrizione di Augusto Malaguti, il danaro, che pescava anche anguille, pesci gatti, carpe, tinche, cavedani, gamberi di fiume e ricorda che dentro il Panaro c'era un'acqua speciale. Ma anche Germano Serafini cita che a Recovato si pescavano le anguille nel canale, le rane, il luccio, la carpa.

In montagna Remo Andreoni ricorda le rane al lago di Pasquino, e le tinche al lago Pratignano, queste ultime le prendevano anche i Seghi,facendo un foro nel ghiaccio e tirandole su con le mani.

Nella Ricci racconta la pesca delle trote a pievepelago ed una ricetta specifica del luogo, la trota con le bietole.


La caccia

Anche la caccia non ha trovato ampio spazio: ne parla soprattutto Giorgio Ghirardini che ricorda la caccia con i cani da ferma, alle lepri, le starne e in autunno le beccacce e i colombacci; la caccia con le trappole e i lacci, ancora alla lepre, ai tordi, alla volpe; allora non c'erano nè i cinghiali nè i fagiani che oggi imperversano nel medio appennino. Stesso racconto lo fanno, più o meno, i Seghi di Ospitale: allora, niente fagiani e cinghiali, solo lepri e colombacci. E volpi prese coi lacci , con cui andavano a farsi dare le uova dai contadini, sostenendo che era una volpe che attaccava i pollai. Anche Sante Mucci ricorda le lepri, ma anche le pernici.


Le pecore e la transumanza

Un obiettivo per ora non riuscito della ricerca è quello della ricostruzione delle vie della transumanza dai crinali appenninici verso la Pianura. Come ricorda Livio Migliori, nel periodo estense tradizionalmente si andava verso la Maremma, dopo l'Unità d'Italia verso Ferrara. Domenico Albinelli racconta le sue transumanza a piedi verso Ferrara, interrotte nei primi anni '50, testimonianza confermata da Ennio Ferrari. Tullio Turelli racconta il suo percorso di transumanza da Piandelagotti, via Cargedolo, Ponte Dolo, Roteglia, Sassuolo, Albareto, fino a Ferrara e ricorda che dovunque erano ospitati, cenavano con gnocco fritto e lambrusco e lasciavano il formaggio in cambio. Annamaria Muzzarelli fa lo stesso racconto dal punto di vista di chi ospitava a Montagnana, precisando che lasciavano il formaggio della mattina. Il veterinario Tornelli ricorda che i pastori passavano in salita da Prignano per andare a Fiumalbo.

Le testimonianze più ricche sulla vita dei pastori sono quelle di Tullio Torelli che parla dei diritti del pascolo, dei cani pastore e del loro addestramento, del caglio che si faceva lui con lo stomaco dell'agnello e quella di Ennio Ferrari che mostra la lavorazione del formaggio e al pascolo il suo gregge che comprende ancora alcuni esemplari di pecore cornelle bianche, una razza in via d'estinzione. Francesco Serri racconta che aveva anche le pecore sia da lana che da formaggio, come i fratelli Coppi, che fanno una bella descrizione di come si lavavano le pecore in fiume prima della tosatura.


Altri mestieri

è giusto ricordare anche altri mestieri di cui si parla nelle interviste, oltre ai tanti che sono già stati citati. Pasquale Nobili fa le tigelle, cioè i dischi in refrattario per cuocere le crescentine, i cesti, le sedie impagliate e le culle per i bimbi: ma sono mestieri relativamente recenti perchè come dice lui, quando aveva quattordici anni le facevano tutti. Cesare Bonaccorsi e Marco Mesini parlano dei bottai che andavano a costruire i tini di legno direttamente in cantina. Milena Bononcini ricorda i calzolai che andavano nelle case a fare le scarpe.

Ada Menabue parla dei birocciai che andavano in Panaro a prendere la ghiaia.

Ubaldo Adani faceva il birocciaio cioè il carrettiere coi muli, e trasportava legna o sassi o neve per la ghiacciaia e allo stesso tempo commerciava muli o cavalli. Questo fino a 6/7 anni dopo la liberazione, i primi anni cinquanta: l'epoca in cui inizia la rivoluzione industriale della provincia di Modena. I trasporti in appennino si meccanizzano. E cambiano le merci: scompare la legna per il gasolio e la metanizzazione, i sassi (laterizi, fornaci, piastrelle) dalla ghiacciaia in pochi anni si passerà al frigorifero in tutte le case.
L'ultima notazione per la donna che segna, la guaritrice Amabilia Cipolli, che cura le storte ed il fuoco di Sant'Antonio e non ha ancora deciso a chi "passare quella cosa lí" come dice lei, dopo di che dovrebbe smettere di segnare.


I canti e i giochi

La vita dei contadini non era solo duro lavoro e mangiare, c'erano anche i momenti di svago, di aggregazione, che non sarebbero potuti mancare in una terra abitata da gente che sa anche godersi la vita. I contadini cantavano. Marco Piacentini e Lorenzo Aravecchia ricordano che nei campi era tutto un cantare perchè non c'era il rumore delle macchine agricole, cantavano da un campo e rispondevano dall'altro. I due hanno descritto la tradizione del maggio delle valli del dolo e del dragone basato su storie epiche e drammatiche, ancora oggi preservato. Si canta e si recita la storia di Romeo e Giulietta o di Tristano e Isotta accompagnati da chitarra, violino e fisarmonica. Una rappresentazione che durava qualche ora, si faceva nelle aie, nei castagneti. Ci sono sempre i buoni e i cattivi, ed alla fine vincono i buoni.

Diversa la tradizione dei canti del maggio di Riolunato, di natura propiziatoria. Li hanno raccontati il compianto Nicolino Nicioli e il fratello don Ezio mentre Emilio Rocchicioli suonava la fisarmonica. Si cantava (e si canta ancora) il maggio delle anime per le indulgenze e quello delle ragazze con i rispetti, le ambasciate.Ma Nicolino faceva anche gli stornelli e le zirudele ai matrimoni e ricorda che si cantava sempre la sera, a Riolunato, aspettando l'arrivo della corriera.

Giovanni Sghedoni ricorda che cantavano tutti mentre raccoglievano le ciliegie o la sera dopo cena, dopo la trebbiatura, cosí anche Sante Mucci. Le sorelle Ghibellini parlano con meraviglia e nostalgia dei contadini che cantavano dopo la mietitura e si rispondevano da un colle all'altro, intonati anche se non avevano mai studiato musica come loro. Si cantavano gli stornelli quando si faceva la foglia (Augusta Guerzoni si è prestata a farlo per noi) e la canzone Mariuleina, intonata a fine pranzo dagli anziani del Centro Sociale di Nonantola, parla proprio di una donna che finge di andare a fare la foglia per scappare dal suo moroso. Cantavano le mondine.

Si ballava in casa, lo ricordano Maria Ghiddi e le donne del Festival dell'Unità, c'era una fisarmonica, un clarino, dicono i Tassi, i musicisti si pagavano col vino. Le donne portavano un panettone, un po' di caramelle, i maschi il vino. Si ballava nel cortile, ricorda Norma Morselli, chi portava il pane, chi le mele campanine. Si andava a veglia nelle stalle d'inverno, racconta Andrea Pini, si socializzava con la trebbiatura, le sagre e i mercati, le feste. Ci si sfidava nei giochi: i Seghi raccontano la disfida dei fuochi per San Giacomo, i Nicioli il gioco della ruzzola con le forme di formaggio pecorino, dure e secche, la corsa del gallo in salita scalzi, lo scoccino con le uova sode colorate il lunedí di pasqua.


Solo cultura patriarcale?

La civiltà contadina era una civiltà patriarcale. Italo Pedroni offre una testimonianza coraggiosa e politically uncorrect di cosa questo volesse dire: chi ha frequentato la sua osteria lo sa bene. Ma anche Carmen Moretti racconta la storia che a tavola debbono servirsi prima gli uomini e poi le donne, se ne avanza e la testimonianza delle sorelle Ghibellini, pur in un contesto di grande agiatezza, è una storia di controllo ferreo nei confronti delle donne di famiglia. Ma forse non sempre la donna era cosí sottomessa. Questa ricerca è dedicata alla rezdora, alla reggitrice del desco, il cui ruolo è ben esemplificato in tutta l'intervista di Mirella Fiandri: "c'erano le dispense chiuse a chiave e la chiave l'aveva la rezdora , la donna, perchè le donne, quelle furbe, hanno sempre comandato". In effetti dalla ricerca emergono straordinarie figure di donne forti e consapevoli, certo custodi delle tradizioni ma anche protagoniste di una storia di emancipazione dal ruolo subalterno che avevano nella società patriarcale contadina che è stata accelerata dalla rottura degli equilibri provocata dalla industrializzazione, ma che hanno vissuto questo cambiamento cercando di difendere e conservare per quanto possibile la loro identità culturale.

"Ci siamo sempre volute bene": Agar Borghi, la compianta Alma Leonardi e le donne del centro anziani di Nonantola ricordano la grande solidarietà fra le mondine che facevano la stagione in Piemonte, un fenomeno protrattosi per decenni e che ha costituito per decine di migliaia di donne la prima occasione di vita insieme fuori del controllo della famiglia, ma grande importanza ebbero anche altre iniziative agro-industriali che occuparono per lo più manodopera femminile, come l'attività di confezionamento della frutta a Vignola, come ricorda Luigi Ori o la fabbricazione dei tortellini e della pasta che da Fini, a Modena, arrivò ad impiegare fino a 300 sfogline: lo cita Lino Fini che è solo un omonimo ma ha lavorato una vita per loro. Tramandare: un progetto educativo e formativo.

La ricerca, come recita il titolo di questo scritto, è un cantiere aperto: il prossimo passaggio sarà quello di schedare i testi ed i filmati in modo da poterli consultare utilizzando un motore di ricerca, senza doverli leggere o guardare tutti. Spero che le note sopra riportate già rendano giustizia delle potenzialità che presenta il materiale per chiunque voglia avvicinarsi a questi temi.

Tuttavia non solo è utile ed auspicabile ma, oserei dire, è necessario che altre ne vengano fatte, anche su base amatoriale, intervistando i nonni e le nonne, facendosi raccontare le loro storie e le loro ricette.
Come è anche importante costruire una banca di informazioni che oltre ai filmati ed alle trascrizioni di questa ricerca e di quelle che verranno censisca le molte altre fonti sulla storia dell'agricoltura e della gastronomia di Modena, dai libri, agli articoli, alle fotografie ed ai filmini d'epoca, agli oggetti, ai siti dell'archeologia gastronomica, dalle case rurali, ai mulini, ai metati.

Soprattutto occorre censire e mettere in rete le persone, le associazioni, le imprese che sono custodi delle tradizioni e che condividono lo spirito e le finalità di questa ricerca.

Poi occorre un grande progetto educativo e formativo permanente, che usi quel patrimonio e coinvolga attivamente quei soggetti, a cominciare dagli anziani intervistati.

Slow Food ha realizzato la prima facoltà in Italia di Scienze Gastronomiche e presto darà vita alla seconda di Agroecologia: esse sono il luogo della ricerca e della didattica intorno a un sapere che sappia integrare agricoltura e alimentazione per produrre cibo buono, pulito e giusto. In provincia di Modena c'è un assessorato provinciale all'Agricoltura ed all'Alimentazione, due scuole professionali alberghiere – lo IAL di Serramazzoni ed il Nazareno di Carpi – ed un istituto agrario – lo Spallanzani, con sedi a Castelfranco e Vignola – che possono essere coinvolti indirizzando verso questo obiettivo i loro programmi formativi.

Ma altrettanto proficuo può rivelarsi il dialogo con l'Università di Modena e Reggio Emilia per progettare nuove attività formative ed educative a diversi livelli:

- un master che coinvolga più facoltà sia umanistiche che scientifiche, volto a recuperare il sapere contadino, anche nelle sue espressioni corporee e linguistiche, il dialetto e la ginnastica contadina, che porti gli anziani a riappropriarsi degli oggetti oggi conservati nei musei (e nei depositi dei musei) della civiltà contadina per farli rivivere, cosí come le tecniche di coltivazione o le vecchie cultivar per confrontarle con una scienza che cerchi di preservare la biodiversità ed un'agricoltura sostenibile
- Interventi nelle scuole come la realizzazione di orti scolastici e l'inserimento dell'insegnamento di pratiche come la preparazione della sfoglia studiati come corsi di ginnastica contadina che valorizzino la grande gestualità contadina anche per i benefici che può dare allo sviluppo fisico ed alla lotta all'obesità; introdurre per quanto possibile in tali corsi l'uso del dialetto
- Corsi alle aziende sia commerciali che di trasformazione sull'identità territoriale dei prodotti, sulla conoscenza delle origini dei prodotti per una loro migliore valorizzazione
- Creazione di circuiti di visita alle aziende per imparare e per acquistare, incentivazione di gruppi d'acquisto, creazione di mercati contadini dove i produttori possano vendere direttamente i loro prodotti
Creazione di parchi ludico-didattici dove le attività agricole e di trasformazione dei prodotti siano l'oggetto di esperimenti, giochi, laboratori del gusto.

C'è tanto da fare.