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Una cucina sempre uguale eppure diversa

di Sandro Bellei
Esperto di storia della gastronomia



I romagnoli dicono che se avete sete e gli chiedete da bere, vi offrono un bicchiere di Sangiovese, mentre di qua dal Rubicone vi danno un bicchiere d'acqua. Forse hanno ragione, ma in Emilia, da Piacenza a Bologna, se insistete per avere un bicchiere di vino, ve lo possono offrire sempre diverso: prima il Gutturnio, poi la Malvasia e infine il Lambrusco. Torrenti e fiumi di vino, che dall'Appennino scendono verso la pianura padana e dividono l'Emilia in tante fette dello stesso frutto. In pochi chilometri, cosí come mutano radicalmente i dialetti, cambiano anche i modi di bere e di mangiare. Emilia e Romagna, fino a qualche anno fa a dividerle c'era un trattino. Oggi, dopo che una legge l'ha abolito, a separarle è rimasto solo un fiumiciattolo, che non sarebbe mai passato alla storia se Giulio Cesare, attraversandolo per dirigersi minaccioso verso Roma, non avesse pronunciato il fatidico "Alea iacta est".

Il pomo della pacifica discordia gastronomica sono i tortellini, una minestra assurta a simbolo di questa terra piena di contraddizioni, patria dell'individualismo universale proprio dove sono nate le cooperative storiche. Chiedere a sud del Po se è nato prima il tortellino o il cappelletto, o se il primato spetta all'anolino, innesca un'oziosa polemica tra Bologna, Modena, Reggio e Parma. Salvato il leggendario oste guardone, che sbirciando Venere dal buco della serratura ne riprodusse con la pasta sfoglia l'affascinante ombelico, credo che tortellini, cappelletti e anolini siano figli della stessa mamma, la vasta pianura del Po.

Nessuna città emiliana può arrogarsi il brevetto della pasta ripiena più nota al mondo per mantenere lucido il proprio blasone in cucina. La civiltà gastronomica padana, pur con apprezzabili differenze, è antropologicamente la stessa, fin dal tempo di celti, etruschi e romani. Da queste parti si ama la buona tavola, si onora la vita anche col cibo, spesso capace di rallegrare gli occhi ancora prima di palato e stomaco. In queste città, il più delle volte, la politica è genuina come la sfoglia, il vino stringe alleanze meglio della politica. Quelle emiliane sono città da assaggiare, oltre che da ammirare. La fama di golosità le precede, ogni visitatore è informato su quanto c'è da vedere, ma anche da mangiare e da bere. Qui, le guide gastronomiche sono da sfogliare con attenzione come quelle dei musei. Sono città cordialmente sensuali, che prendono a braccetto i loro ospiti, li coccolano, li blandiscono, li mettono a tavola e li lasciano soltanto quando sono sazi. Se i turisti fossero bambini, gli farebbero fare anche un ruttino di buona digestione.

Modena non è da meno di Bologna, ex riconosciuta capitale della golosa gastronomia emiliana. La sua tavola merita un lungo capitolo nella vasta enciclopedia della cucina regionale italiana. Sontuosa e raffinata, sa essere anche semplice, straordinariamente rustica. Modena è uno dei tanti ombelichi gastronomici che meritano di essere visitati in un giorno di tiepida primavera, con la voglia di scollinare a caccia di trattorie fuori mano e di una cucina purtroppo in via d'estinzione. Qui ci sono ancora robuste "rezdóre" che, sculettando un solitario e sensuale samba, tirano a mano la sfoglia sul tagliere. Sotto i bersò delle trattorie di campagna, non appena la nebbia dà tregua, è facile vedere gruppetti di donne che, chiacchierando e ridendo, ripetono il gesto antico, quasi un rito tribale, di chiudere la pasta dei tortellini. Le dita lavorano da sole, come quelle allenatissime di un prestigiatore, senza bisogno che il cervello le comandi.

Da queste parti, tutte le donne sanno come si prepara il brodo, quello buono della festa, ma non la pensano allo stesso modo sul ripieno dei tortellini. Ognuna si comporta a modo suo, seguendo e mutando al tempo stesso i consigli della mamma, che aveva già seguito e mutato i consigli della nonna. Non c'è "rezdóra" che non aggiunga o tolga qualcosa alla ricetta di cui ha sentito parlare sin da bambina, un variegato cocktail (maiale, vitello, tacchino, pollo, cappone, prosciutto, mortadella e parmigiano-reggiano), dove cambiano proporzioni e abbinamenti. A Castelfranco Emilia, esattamente a metà strada fra Modena e Bologna, nell'antico tentativo di definire la ricetta canonica del tortellino, c'è stato chi ha bussato, casa per casa, alla porta di tutte le massaie. Alla fine della lunga proustiana ricerca del tortellino perduto, ha inaspettatamente collezionato oltre 300 "proposte" per la stessa minestra, tutte diverse l'una dall'altra. E qualsiasi paese di questa lunga provincia, chiusa nell'umido abbraccio di Secchia e Panaro, dove nessuno, tantomeno in cucina, rinuncia a essere se stesso, darebbe lo stesso risultato. Per verificare se questa terra orizzontale merita ancora, a prescindere dalla miriade di ricette per il ripieno dei tortellini, la fama legata al suo nome, il sistema migliore è quello di mettersi a tavola. A Modena, per farlo, bisogna inoltrarsi nelle piccole vie del centro, dove agli ocra e ai rossi (rivoluzionari o estensi?) di antiche facciate si alternano pareti di mattoni che colano il tempo. In un dedalo di contrade dal ricordo medievale, di cortili con fiabeschi trompe-l'oeil e di lunghissimi portici, s'incontrano tesori in questo caso più ghiotti per gli occhi.

Modena, un tempo capitale del Ducato estense e, al pari di Bologna, dotta, grassa e rossa, ora non è più nè l'una nè l'altra e (forse) neanche l'altra ancora. Da città ricca e industriosa, esperta di piaceri, si è assicurata una tranquilla sazietà. I suoi ristoranti ne sono la cartina di tornasole. Pur senza il diffuso splendore di un tempo, resistono gagliardamente all'avanzata di birrerie, pizzerie ed ex tavole calde trasformate in fast food, mentre avanza il "pericolo giallo" dei ristoranti cinesi fatti in serie.

Una cucina sapida, quella modenese, forse un po' troppo grassa, eccessivamente calorica. La colpa, si dice, è della carne suina. In onore di Sua Maestà il Maiale, in piazza a Castelnuovo Rangone, arricchitasi anche sulla cotenna del cireneo a quattro zampetti, hanno eretto persino un piccolo monumento. è la sua carne, infatti, a offrire alla cucina modenese il valore aggiunto invidiato da tante "rivali". Peccato che oggi, deviati dai falsi profeti delle diete e dalla smania di sprovincializzarsi (ma perchè solo a tavola?), molti di quelli che hanno sempre adorato il maiale e la sua sapida cucina ripudino consolidate abitudini. Imbandendo ciò che suggeriscono i santoni di una "nuova" cucina, la cui cultura è già tramontata anche in Francia, là dove era nata, chi è privo d'idee crede di fare tendenza gastronomica come se la cucina fosse un laboratorio.

Un tempo, quando la tavola era più rituale (lasciano perdere per un momento la tradizione), la cucina - ricorda Piero Camporesi - era "scandita sul doppio binario dei cicli stagionali e del calendario liturgico, orchestrata dalle lune e dai soli, dai santi e dai patroni, dalle vigilie e dalle feste legate al ciclo agrario, dal Carnevale e dalla Quaresima, dalle nascite, dalle morti, dai matrimoni". Quale luogo migliore della tavola per queste consacrazioni laiche? Oggi, però, il diffuso benessere ha moltiplicato quei giorni e li ha inevitabilmente inflazionati, come fosse sempre festa, continuamente Natale, Pasqua o domenica. I tortellini sono diventati un piatto per tutti i giorni. Sviliti dalla consuetudine, hanno perso il valore di sacralità che avrebbero dovuto mantenere.

A parlare di pasta sfoglia vien voglia di iniziare come nelle favole. Una volta era fatta a mano, con la farina raccolta a cratere sul tagliere per contenere il tuffo delle uova di giornata. Poi, il lungo e faticoso lavoro della "rezdóra", che impastava a forza di braccia e col sapiente ritmo delle mani. Infine, l'abile impiego del matterello di liscio legno di ciliegio secondo tradizione, adoperato con professionale maestria, mosso da gesti sapienti, quasi atavici. Era il rito della domenica mattina, quando la donna di casa, dopo aver messo sul fuoco la pentola con la carne per il brodo, tirava la sfoglia, un disco dorato da cui nascevano i tortellini per solennizzare la festa e le tagliatelle per il giorno dopo. Una grande prova di abilità culinaria non alla portata di tutte, certamente preclusa a quelle che non avevano le mani calde, segno di buona salute, e facevano meno fatica delle altre a saldare i lembi dei tortellini.

Forse, a livello domestico, è finita un'era gastronomica. Le donne che lavorano non hanno più nè tempo nè voglia da dedicare al tagliere. I tortellini, pagando uno scotto al sapore e alla genuinità, si comprano già fatti, lucidi, plastificati, nei comodi supermarket sotto casa. Alle vere tagliatelle fatte in casa non si può pensare che in chiave d'assoluta nostalgia. Lo stesso si può dire degli altri tagli di sfoglia, per minestre in brodo e asciutte. Le "rezdóre" più abili, maneggiando un affilato coltello dalla lama lunga e stretta, in pochi minuti, con tagli rapidi e sicuri, ricavavano dalla sfoglia arrotolata le tagliatelle da fare asciutte e poi, con tagli più lenti e meditati, le tagliatelle strette da brodo. Ancora oggi i modenesi, riferendosi rispettivamente alle prime e alle seconde dicono "sutíla èd canèla e gròsa èd curtèla" (tirata sottile e tagliata larga) e "gròsa èd canèla e fina èd curtèla" (tirata grossa col matterello e tagliata fine col coltello).

Accanto alla sfoglia e al suo vasto impiego culinario, va ricordata la ricetta più antica e semplice del mondo. Prevede solo due ingredienti, acqua e farina, che da sempre l'uomo mescola e cuoce in mille modi diversi. Agli elementi fondamentali, se n'è poi aggiunto un terzo, il sale, un tempo raro e prezioso. è la ricetta per fare il pane, che un tempo aveva il posto d'onore sulla tavola, accanto ad antiche preparazioni divenute moderni "succedanei", come la crescenta, il gnocco fritto e quello ingrassato, le crescentine cotte nelle tigelle e la stria. Erano, e dovrebbero essere tuttora, cibi poveri, che una volta imbandivano mense dove si trovava ben poco di più. E di quello ci si doveva accontentare.

Il pasto importante si apriva con una portata d'affettati della tipica produzione locale, ma per accompagnarli non comparivano mai il gnocco fritto o quello ingrassato. Oggi, invece, secondo un'assurda moda gastronomica dettata da molti ristoranti che sanno lucrare sul rapporto prezzo-qualità, salame, prosciutto, coppa e mortadella sono serviti insieme con piccoli rombi di gnocco fritto o pezzi di gnocco ingrassato. Un tempo, questi derivati dalla pasta di pane avevano un impiego gastronomico ben diverso. Quando le giornate lavorative, soprattutto quelle dei contadini, iniziavano all‘alba e terminavano al tramonto, chi andava in campagna aveva bisogno di una robusta alimentazione. Gli uomini impegnati nei campi sfruttavano la luce finchè era possibile, il lavoro era duro, la fatica tanta, la fame in proporzione.

Al mattino, la "rezdóra" si alzava per prima e preparava robuste colazioni per chi andava a lavorare. I ragazzi inzuppavano il pane raffermo del giorno precedente in grosse tazze colme di caffelatte, ma per i gagliardi appetiti mattutini degli adulti servivano gnocco e salame. D'estate, il lavoro era anche più pesante. Il pieno di calorie era fatto al sorgere del sole, con uova fritte nello strutto, con ciccioli e verdura fresca. Spesso, la rustica "colazione" era innaffiata da qualche bicchiere di Lambrusco. I nostri nonni non lo sapevano, ma dal punto di vista nutrizionale la loro alimentazione era quasi perfetta: un'abbondante colazione, poi una breve sosta per il leggero pasto di mezzogiorno, spesso composto da una minestra e un po' di verdura in insalata accompagnata da altro gnocco, e al pomeriggio una merenda sostanziosa, in genere qualche fetta di salume, altra verdura fresca, cipolle, cetrioli e peperoni. Soltanto alla sera, in particolare d'estate, quando tutta la famiglia si riuniva a tavola, si mangiava in modo più sostanzioso. La cena iniziava presto, ma durava a lungo. Durante l'unico pasto robusto della giornata, le quattro chiacchiere attorno al desco sull'andamento del lavoro e sulla piccola economia domestica, si protraevano sino alla fine dell'ultima bottiglia di Lambrusco e occupavano il tempo che oggi dedichiamo alla tv.

Qual è la differenza fra gnocco fritto e crescenta? Molti, credendo si tratti della stessa cosa, confondono il primo, che in molti bar ha sostituito la brioche mattutina, e la seconda, che è divenuta, in città, pianura e montagna, l'agguerrita concorrente della pizza. La peculiarità del gnocco fritto (non scriverò mai, nemmeno sotto tortura, "dello gnocco") è quella di essere rotondo, con un diametro pari a quello della padella nella quale è fritto, e avere uno spessore di circa mezzo centimetro. Per preparare la crescenta si usa lo stesso impasto, ma lo si tira sino a uno spessore più basso di circa la metà, che poi si taglia in rombi di varie dimensioni. Crescenta e gnocco, la prima più leggera del secondo, sono entrambi fritti in padella nello strutto bollente. Nel gnocco, un tempo, si faceva un foro al centro (l'"umbrèghel", l'ombelico), perchè l'unto tracimasse e friggesse perfettamente anche la parte superiore. La crescenta, del resto, ha un nome rivelatore, poichè cresce e lievita sino a gonfiarsi come una fragrante nuvola di pasta.

Il gnocco ingrassato (nella Bassa, le famiglie più legate alla tradizione lo cuociono ancora sotto la cenere) è preparato con gli stessi ingredienti, ma è messo al forno dopo essere stato arricchito con piccoli ritagli di carne suina. La variante montanara del gnocco è la crescentina, al cui impasto è molto simile. Un tempo, accompagnate solo da un gustoso "battuto" di lardo, rosmarino e aglio tritato cosparso di formaggio, erano la quotidiana colazione e merenda. Oggi, quando sono ancora caldi, i dischi di pasta (alti circa 5 cm. e con un diametro di 8-10) sono tagliati a metà nel senso longitudinale, spalmati con la farcia su una delle due parti e consumati al posto del pane, oppure accompagnati ai nostri tradizionali salumi e formaggi. Chiamate anche tigelle, secondo un errore linguistico ormai tanto diffuso da essere accettato persino dagli stessi abitanti del territorio, le crescentine sono l'esempio di una consuetudine alimentare rimasta intatta nel tempo, giustificata dalla scarsità d'ingredienti alimentari a disposizione. Non si può dimenticare, alla stessa stregua, che la popolazione della montagna, in tempi di dura carestia, ha dovuto la sopravvivenza alla presenza dei castagni, dai cui frutti ha ricavato una farina succedanea a quella del frumento. Oggi, ricavate dalla stessa semplice ricetta per fare gnocco e crescenta, le "tigelle" sono rotolate a valle con molte altre abitudini gastronomiche - basterebbe citare i borlenghi - diventando l'ideale accompagnamento per rustici, veloci, saporiti ed economici spuntini.

Piccole e morbide, le crescentine erano cotte accanto al fuoco del camino, in mezzo a pietre refrattarie, le tigelle, il cui etimo deriva dal latino "tegere", che significa appunto "coprire". Con le tigelle avvicinate due a due, si facevano pile piuttosto alte, in modo da portare in tavola contemporaneamente molte crescentine. Oggi, i metodi di preparazione dell'impasto e le tecniche di cottura sono cambiati. Un tempo, le donne di montagna avevano a disposizione solo un po' di farina, che con l'acqua serviva per confezionare le focacce. Ora, all'acqua e alla farina sono spesso aggiunti latte e olio extra vergine d'oliva, per rendere l'impasto più morbido e saporito. I dischi di pasta sono cotti tra due piastre di ghisa con resistenze elettriche incorporate che ne sfornano anche una dozzina alla volta. Il sapore non è uguale, ma in casa non c'è altro mezzo per cuocerle.

La "stria" è un'altra delle variazioni sul tema. Un tempo, era preparata il mattino del giorno dedicato alla panificazione. Le donne tenevano da parte un po' d'impasto, lo insaporivano con lo strutto e lo tiravano in una sfoglia consistente che mettevano a cuocere, dopo aver tolto il pane, davanti all'imboccatura del forno ancora caldo. La "stria", pronta in pochi minuti e pulita dalla cenere, bruciacchiata o poco cotta, secondo dove era caduta nel forno, purificata prima dal fuoco e poi dal sale, era mangiata con un po' d'affettato. Perchè era chiamato "stria", strega, un pezzo di pane dalla crosta croccante e l'anima bianca? Risponde la tradizione. Un tempo, quel simbolo apotropaico degli influssi negativi di una strega si gettava nel forno, con intento propiziatorio, per esorcizzare gli spiriti maligni del fuoco e assicurare buon pane per tutta la settimana.

Unite in un tegame la polpa di maiale e il petto di gallina tritati finemente e il burro. Cuocete per circa 15', aggiungete il prosciutto già tritato, lasciate sul fuoco ancora per qualche minuto, togliete, lasciate raffreddare, incorporate alla carne il Parmigiano-Reggiano e un uovo, poi mescolate l'impasto sino a ottenere un amalgama consistente ma morbido, aggiungendo, se necessario, un po' di sale e di noce moscata. Questo è il ripieno per tortellini che nel Modenese va per la maggiore, ma le varianti sono numerose. C'è chi adopera la mortadella al posto del prosciutto o il vitello (in qualche caso già cotto arrosto) invece del maiale, chi il petto di tacchino o di pollo in aggiunta al maiale e chi il grasso di gallina (meglio se di cappone) in sostituzione del burro. Con farina, sale, olio e uova si fa la pasta nel solito modo e la si lascia riposare sotto un canovaccio per circa 30'. Tirata la sfoglia piuttosto sottile, non molto secca, la si taglia a strisce prima orizzontali poi verticali, in modo da ottenere quadrati di 3-4 cm. di lato. Più il tortellino è piccolo, più è apprezzato. Si pone al centro del quadrato una piccola presa di ripieno ("al pèst"), poi si piega la sfoglia a triangolo, facendo aderire bene gli orli. Dopo aver stretto fra il pollice e l'indice d'entrambe le mani i cateti del triangolo, si fa ruotare con la destra il tortellino attorno alla punta dell'indice sinistro e si sovrappongono i due angoli, stringendoli sinchè non restano uniti. I tortellini debbono riposare, rassodarsi alcune ore e poi cuocere in un brodo di carne dove prevalga il gusto della gallina. Dieci minuti bastano per portarli al giusto punto di cottura. Quando si servono in tavola, è bene seguire la tradizione, che vuole "per ogni turtlèin un cucèr èd bròd" (per ogni tortellino un cucchiaio di brodo).

Il modo migliore per gustare i tortellini è cuocerli e servirli in brodo, ma una pessima abitudine che ha preso piede in quasi tutti i ristoranti li vuole anche conditi (una vera eresia gastronomica) con una salsa di panna e Parmigiano-Reggiano, moderno e dannoso "arricchimento" di una minestra già perfetta. La panna è un alibi per i cattivi cuochi, un ingrediente ruffiano che appiattisce ogni sapore e serve solo a riscattare sughi mal riusciti. Sui tortellini in brodo, non andrebbe messo il Parmigiano-Reggiano, perchè ce n'è già q.b. (quanto basta) nel ripieno. Aggiungendolo non si fa altro che prevaricare sapori di cui, invece, deve essere gustata tutta la gamma. Per presentarli in tavola in modo impeccabile, è bene usare il semplice accorgimento di preparare una quantità di brodo quasi doppia del consueto; una metà servirà a cuocere i tortellini e l'altra, opportunamente scaldata, a imbandirli in un brodo perfetto, limpido, non intorbiditosi durante l'ebollizione.

Leggenda dell'oste "guardone" di Castelfranco Emilia a parte, il tortellino non dovrebbe essere rinchiuso dentro stretti confini geografici. Sia Pellegrino Artusi, primo agiografo della gastronomia italiana, sia Vincenzo Buonassisi, autore del fondamentale "Il codice della pasta", lo definiscono bolognese, ma credo che al piccolo capolavoro di pasta ripiena sia più giusto riconoscere radici meno provinciali, una più vasta e nobile tradizione padana. Lungo la spina dorsale della regione, alla stessa stregua delle antiche pietre miliari del console Emilio Lepido, segna - seppure con nomi diversi - le tappe e le tracce di una civiltà gastronomica, che ha per comune denominatore la pasta sfoglia. Il ripieno non può essere codificato in alcun modo. L'individualismo delle nostre massaie rende impossibile la canonificazione di una ricetta-tipo. Le differenze, inoltre, non seguono gli stessi tracciati degli attuali confini politici delle province. Fortunatamente, infatti, ci s'imbatte nelle medesime golose abitudini sia di qua sia di là dal Po.

Oltre a quella di frumento, per la cucina modenese sono molto importanti anche altre due farine. Ricavate dalle castagne e dal mais, sono servite in passato a sfamare intere generazioni che niente altro potevano mettere sulla tavola di tutti i giorni se non castagnaccio o polenta. Oggi, dimenticata la fame, la farina di castagne è impiegata quasi esclusivamente per dolci che hanno il nostalgico sapore dell'infanzia e quella gialla di mais ("al furmintòun") per sfiziosi pasticci che hanno poco da spartire con la spartana polenta dei periodi di disperata miseria. Per gli abitanti dell'Appennino, dove il grano - per motivi climatici – non poteva crescere, le castagne hanno rappresentato, almeno sino agli inizi dell'altro secolo, il principale alimento. A dimostrazione che la necessità aguzza l'ingegno, è stato utilizzato il frutto del castagno in molte maniere. Un tempo, la produzione della montagna riforniva buona parte della pianura. Le castagne erano mangiate crude, bollite, arrostite e anche essiccate. Nei metati, rustici e indispensabili forni, i membri di piccole cooperative familiari si alternava a tenere acceso il fuoco che garantiva il calore per l'ottimale essiccazione delle castagne. Costituivano la riserva per tutta la stagione. Con la farina ottenuta dalla loro macinazione, si ricavavano focacce da usare al posto del pane e schiacciatine che erano la versione montanara di quelle della pianura. Oggi, la farina di castagne serve per preparare focacce o frittelle dolci, un robusto gnocco tagliato a generose fette alte tre dita ("al castagnàz") e schiacciatine fritte, rotonde, larghe e sottili ("fritlòz"), mangiate a colazione e a merenda.

La farina di mais, per molti secoli, insieme con le patate, è stata uno dei pochi rimedi contro la fame. Poi, con l'avvento della pellagra (un'avitaminosi che l'ignoranza popolare, per lungo tempo, attribuí erroneamente all'impiego del mais e al suo diffuso consumo sotto forma di polenta), la farina gialla ha perso i favori della gente. C'è voluta la scienza a spiegare che la pellagra non dipendeva dalla polenta, ma da un'alimentazione priva dei nutrienti necessari all'organismo. Nel Modenese, poichè grazie al largo uso di carne suina questo pericolo è stato corso in misura ridotta, la polenta ha sempre conservato sulla mensa un posto importante, sebbene stagionale. Quasi mai mangiata da sola, era tagliata col filo, divisa in larghe fette e condita con carne, formaggio o verdure.

La preparazione della polenta, come quella del pane, ha sempre rappresentato un momento corale nella gastronomia padana. La donna di casa non metteva sul fuoco il paiolo di rame ("stagnèda"), se non fosse presente chi l'aiutasse a mescolare con continuità, sempre nello stesso senso, il giallo pastone bollente. Distesa sul tagliere e condita con ragù, burro, salsiccia o piancostato, la polenta impegnava tutti i componenti della famiglia in un'allegra gara: chi arrivava primo al centro della multicolore "distèsa", conquistava la salsiccia che vi troneggiava come ulteriore premio.

La polenta era consumata anche in tante altre versioni. Nel Modenese, la più nota era una miscela di farina gialla e fagioli, che cambiava nome ("chelzagàt", "persunèr" o "puleinta inciuldèda") secondo le zone della provincia. La tradizione popolare vuole che sia nata per caso, quando una servetta maldestra, incespicando nel gatto di casa, fece cadere inavvertitamente dei fagioli nel ramaiolo della polenta. Temendo i rimbrotti della padrona, tacque l'incidente, ma riscosse le congratulazioni dei commensali. L'unico a rimetterci fu il gatto, vittima di una bella dose di calci, che giustificherebbero il nome dato alla polenta. Cosí la leggenda, ben diversa la realtà. Questo modo di preparare la polenta, infatti, è la semplice risposta gastronomica a una fisiologica richiesta nutrizionale. La sola polenta calmava i morsi della fame, ma non offriva l'apporto calorico per sopportare il pesante lavoro dei campi. Con l'aggiunta dei fagioli, dal già empiricamente noto valore proteico, il problema era risolto.

Si dice che il vino si giudica per quello che è, ma l'aceto balsamico per quello che sarà. La sua filosofia è tutta qui. Prodotto col mosto ricavato da uve scelte di Trebbiano di collina, quest'elisir di cucina, retaggio antico di nobili tradizioni familiari modenesi, rappresenta uno dei prodotti più singolari dell'enogastronomia italiana. A condire verdi cocktails d'insalate, a insaporire frittate di ogni tipo, a impreziosire carni bollite o arrostite, a esaltare tutti i sapori cui si accompagna, ne bastano poche gocce. Per fortuna, perchè l'unico "difetto" di questo liquido colore del legno antico è che vale tanto oro quanto pesa. Roba da condire l'insalata col contagocce delle medicine di una volta.

Prodotto con uve generose, l'aceto balsamico subisce un lunghissimo procedimento di lavorazione. Il motivo del prezzo da boutique gastronomica è solo questo. Riservato un tempo a poche famiglie, che ne avevano ereditato l'antica tradizione attraverso i secoli, questo aceto si è diffuso a mano a mano che è uscito dalla ristretta cerchia dei fortunati possessori. Con una riuscita operazione di "proletarizzazione" culturale, il balsamico è stato portato fuori dei solai delle case patrizie e borghesi e ha trovato ovunque larga ospitalità. Frutto di una complessa maturazione, un tempo era lasciato in eredità ai nipoti, i soli che a distanza di molti decenni avrebbero potuto spillare dalle botti l'inimitabile condimento da cucina. Oggi, grazie alla disponibilità d'aceti già invecchiati, in grado di avviare il processo d'acetificazione del mosto, non è più necessario avere la pazienza dei nostri nonni. Tutto ciò, naturalmente, influisce su qualità e prezzo. Se costa poco, troppo poco, non può essere un aceto balsamico tradizionale di Modena, invecchiato almeno 12 anni come garantisce il disciplinare del più antico dei troppi Consorzi nati via via a difesa di questo "oro nero" da cucina, ma probabilmente un suo "cugino", un aceto balsamico di Modena, prodotto in modo del tutto diverso, che però ha una sua riconosciuta dignità gastronomica e usi in cucina che si assomigliano molto.

Il procedimento per la produzione dell'aceto balsamico tradizionale è suggestivo, vagamente esoterico. Dopo che il mosto di vino, setacciato, bollito a lungo per ridurlo di un terzo e poi raffreddato, è stato versato nella botte più grande, la prima dell'acetaia, detta "la badessa", che in genere è di rovere (le altre, a scalare, sono di gelso, quercia e ciliegio), si attende un anno per i travasi. Nella botte più grande, si aggiunge altro mosto cotto per sostituire quello evaporato nel frattempo. La stessa operazione si fa nella botte attigua, un po' più piccola. Il procedimento va ripetuto l'anno successivo, rincalzando la seconda botte con l'aceto della prima. E cosí via, sino a rincalzare tutte le botti dell'acetaia (o "batteria") con l'aceto di quella che sta alla loro destra, la seconda dalla prima, la terza dalla seconda, ecc.

Il cocchiume delle botti, ospitate in un fresco solaio in penombra, un tempo era tappato da un sasso di fiume, perchè passasse soltanto l'aria che serve a ossigenare l'aceto. Oggi, basta una garza per proteggere il foro. Dalla botte più piccola, dopo un consistente periodo d'invecchiamento, si spilla un liquido denso sino a essere sciropposo, di colore bruno scuro, carico e lucente, che emana un penetrante e caratteristico profumo di gradevole armonica acidità e ha un sapore equilibrato, fra il dolce e l'agro. Ogni anno i migliori produttori di aceto scendono in lizza alla Fiera di Spilamberto, misurando il loro nettare in concorso e sottoponendolo al giudizio di una qualificata giuria, che stila un verdetto finale dopo prolungati assaggi dall'immutabile sacralità di un rito. I giurati, per alcune ore, guardano gli aceti controluce, li annusano fino a mettere a dura prova le narici, li palpano fra le dita per valutarne l'apprezzata vischiosità dopo averne versato poche gocce sul dorso di una mano, ne valutano il sapore titillando silenziosamente la punta della lingua, li scuotono nelle trasparenti ampolline di vetro come fossero (e forse lo sono) sostanze chimiche con virtù miracolose.

Chi lo utilizza in cucina ha personalizzato le ricette di chi, fino a qualche anno fa, parlava d'aceto balsamico come l'iniziato a una loggia massonica di buongustai. I piatti che se ne ricavano (oltre alle fin troppo abusate scaloppine) appartengono a una cucina d'ispirazione contadina, che a volte raggiunge eccellenze principesche. I sapori ai quali il balsamico offre il mistero della sua singolare contraddizione sono tanti; sulle verdure, in particolare quelle crude, non dimenticando di metterlo prima dell'olio (per evitare una lubrificazione che lo farebbe inutilmente scivolare via) e di non aggiungere molto sale; sulle le carni bollite, dove poche gocce rendono più morbido e appetitoso un lesso magro o troppo asciutto; sugli insaccati cotti, dove impreziosiscono, sgrassandolo, anche un piatto a volte greve come lo zampone. Lo sapeva anche Matilde di Canossa, che in una botte d'argento, su un carro speciale trainato da due buoi, lo inviò come dono prezioso all'imperatore Enrico IV, uno dei primi pentiti della storia.

Chi dice che il Lambrusco è un vino che non merita citazione nel Gotha enologico italiano, si sbaglia di grosso. A sbaragliare i suoi detrattatori basterebbe ricordare che è il vino rosso italiano più bevuto al mondo. Ha conquistato i gusti dei consumatori perchè è giovane, beverino, naturalmente frizzante, le doti più richieste dal mercato. Con le esigenze alimentari, infatti, sono mutati anche i gusti. Non siamo più abituati ai cibi calorici di un tempo, giustificati da un'attività lavorativa più lunga e pesante di quella che svolgiamo oggi. Preferiamo bevande meno alcoliche, che lascino lucido il cervello. Il Lambrusco è un vino antico nato moderno, dotato di grande personalità, ma non impegnativo, ricco per natura di quell'anidride carbonica che in altre bevande l'industria addiziona artificialmente per renderle più gradevoli al palato.

Chi pretende ancora che vantino nobiltà solo i vini chiusi in una bottiglia da tanti anni? Chi continua a citare una classifica enologica dove i vini invecchiati prevalgono su quelli beverini? Chi insiste a credere che il Lambrusco, ma anche altri ottimi vini "provinciali" (Sangiovese, Chiaretto, Gutturnio, Teroldego, ecc.), perda il confronto con Barolo e Amarone? Lo affermano i produttori che propongono vini da invecchiare, una filosofia enologica che merita rispetto, ma che contrasta col mercato moderno. Il consumatore beve sempre meno e vuole vino senza le controindicazioni di un elevato tenore alcolico e un'alta tannicità. Il Lambrusco sembra fatto su misura per i piatti della nostra sapida cucina, che hanno bisogno delle sue "bollicine" profumate di viola per sembrare più leggeri. Un matrimonio perfetto, forse fra i più riusciti della cucina italiana, che sposa un vino "selvatico" a una gastronomia forse non molto raffinata, ma che non tradisce mai chi l'apprezza.

Il Lambrusco deriva dal vitigno "labrusca", già noto agli Etruschi e ai Romani, ancora prima ai Galli Liguri. Non ci sarebbe bisogno di trovare al Lambrusco altre storiche parentele, ma è giusto ricordare anche il parere di Italo Cosmo, il più grande ampelografo italiano. Nella sua monumentale opera "Principali vitigni di vino coltivati in Italia", descrive ben otto diversi Lambruschi: i modenesi Grasparossa, Salamino e Sorbara; i reggiani Marani e Montericco; il parmigiano Maestri; il mantovano Viadanese e quello trentino a foglia frastagliata. Di tutti questi, dice, "quello di Sorbara è senza dubbio il più importante, perchè dà un vino più pregiato degli altri; malauguratamente, non si è molto diffuso al di fuori della zona originaria, a causa della sua difettosa conformazione floreale, la quale si traduce in scarsa e talora scarsissima fertilità".

Il Lambrusco di Sorbara nasce dalla varietà omonima. Ha un grappolo di media grandezza, allungato e piramidale, con un'ala. L'acino, anch'esso di media grandezza, ha una buccia molto pruinosa e di colore blu-nero. Il suo habitat naturale è la piana che si stende alle spalle della città, fra l'abbraccio di Secchia e Panaro. Il colore va dal rosso rubino al granata, con varia intensità. Mentre il vino è versato, si adorna di una spuma viola che, quando è troppo persistente nel bicchiere, denuncia l'indesiderabile presenza d'anidride carbonica aggiunta. Ha un deciso odore, nel quale si coglie un gradevole profumo che ricorda quello della viola, un sapore asciutto (a volte appena amabile), un gusto armonico, morbido, fresco, frizzante e sapido, un corpo snello e un retrogusto ancora di viola, spesso esaltato dal naturale sviluppo gassoso del vino. La formula tradizionale di quest'uvaggio, che non deve stare sotto gli 11° gradi alcolici ed è consigliabile servire in tavola a una temperatura di circa 15°C, è composta da Sorbara (non meno del 60%), Salamino (3°%) e Uva d'oro (10%). C'è chi elimina quest'ultima (cosí chiamata perchè proveniente da vitigni francesi della famosa Côte d'or, attecchiti nel Modenese sin dal XVI secolo) a vantaggio del Grasparossa, e anche chi maggiora la quantità di Sorbara.

Il Lambrusco Grasparossa o di Castelvetro nasce anch'esso dalla varietà omonima. Si presenta con un grappolo di media grandezza, allungato e piramidale, con un'ala molto evidente. Si distingue dagli altri Lambruschi, come dice il nome, per avere graspo e peduncoli di un colore rosso vivace. L'acino è di media grandezza, con buccia molto pruinosa e di color blu-nero. Il vino che ne deriva (85% di Grasparossa, 15% d'altri Lambruschi e Uva d'oro) si caratterizza per un grado alcolico più basso (10,5) e un sapore più amabile rispetto al Sorbara, il colore rosso rubino orlato di violaceo e il profumo vinoso e fruttato. è sapido, armonico e vivo d'acidità. La zona di produzione comprende quasi tutta la pedemontana modenese.

Il Lambrusco Salamino o di Santa Croce, il meno diffuso dei tre, si presenta con un grappolo piccolo, compatto e cilindrico che ricorda nella forma (da qui il nome) un piccolo salame. L'acino ha una grandezza variabile, con buccia sempre pruinosa e di colore blu-nero. Assomiglia più al Grasparossa che al Sorbara. Rispetto a quest'ultimo ha lo stesso grado alcolico, ma più tannicità. La formula prevede l'impiego di Salamino, ma è consentita l'inclusione nell'uvaggio d'altri Lambruschi e d'Uva d'oro fino al 10%. La zona di produzione è quella che comprende per buona parte il territorio a nord-ovest di Modena. Qualcuno lo ritiene il più profumato, austero e ricco di corpo della famiglia, il più adatto ai sapidi cibi della tavola modenese, a conferma del proverbio "A cibi pesanti vini leggeri", che nella gastronomia emiliana trova ampia e collaudata conferma.

Tutti e tre i Lambruschi modenesi, è quasi inutile ricordarlo, non debbono sostare troppo in cantina perchè dopo un anno e mezzo, massimo due, si assopiscono e perdono il loro carattere, allegro e ridente. Un tempo, quando il vino era prodotto anche in casa, le uve erano diraspate e pigiate e il mosto, che andava subito in fermentazione, era svinato dopo 2-3 giorni, col tenore zuccherino ancora alto. Il vino nuovo, che aveva una fermentazione più lenta, era travasato continuamente per togliere la feccia e far completare la trasformazione dello zucchero residuo in alcol. A febbraio-marzo, era travasato in robuste bottiglie di vetro scuro. Oggi, i Lambruschi sono prodotti esclusivamente da cantine industriali o cooperative. La loro qualità, da quando nel maggio del 1970 hanno visto riconosciuta la denominazione d'origine (doc), è protetta da un Consorzio di tutela che garantisce la tipicità e marchia con un bollino solo le bottiglie che superano il test di una commissione d'esperti.

Il Parmigiano-Reggiano è il campione del mondo dei formaggi. L'etichetta non è uno slogan pubblicitario, ma la qualifica che gli spetta dal 1972, quando vinse il titolo negli Usa. La carta d'identità di questo prodotto che nasce nel cuore della Pianura padana è semplice: formaggio a pasta dura, semigrasso, a maturazione lenta, ottenuto per coagulazione di latte parzialmente scremato a mezzo di caglio e con l'aggiunta di un'aliquota di siero della lavorazione precedente. La pasta è color paglierino, con una struttura minutamente granulosa che si frattura a schegge. Il taglio è provocato irregolarmente con un coltello particolare, a occhio di mandorla. La forma è cilindrica, con un'altezza che va dai 18 ai 24 cm., un diametro che oscilla dai 35 ai 45 cm. e un peso che si aggira tra i 25 e i 35 kg. La crosta, compatta, molto dura, di un bel colore giallo-ocra, evidenzia la marchiatura su tutta la superficie dello scalzo, secondo le disposizioni del Consorzio di tutela. Sino al 1955, questo formaggio si chiamava Grana, ma poi la legge stabilí che doveva assumere la denominazione di Parmigiano-Reggiano per consentire ad altri produttori di continuare a usare quell'etichetta. Il Parmigiano-Reggiano è prodotto solo nelle province di Parma, Reggio e Modena e in parte di quelle di Mantova (destra Po) e Bologna (sinistra Reno).

I suoi valori nutrizionali sono già stati scoperti e collaudati da avanzati studi di scienza dell'alimentazione. è alla tavola, però, che deve la sua fama, sia da grattugiato (indispensabile valore aggiunto della pastasciutta) sia da protagonista del dessert. Il suo contenuto proteico (48,52%) è sfiorato solo da quello del provolone (34,10%). Dopo quelle nutrizionali, la natura s'incarica di garantire anche le caratteristiche organolettiche. Il Parmigiano-Reggiano si produce solo con latte crudo bovino della miglior qualità. Per ogni forma di circa 35 kg. ne servono almeno 5 quintali, con un rapporto di 16 litri di latte ogni kg. di formaggio.

Il maiale è un animale in onore del quale tutti gli abitanti della pianura padana dovrebbero erigere un monumento, magari nella piazza di uno dei paesi divenuti più ricchi grazie a prosciutti, zamponi e salami. Nonostante ciò, il suino è per molti un simbolo di sporcizia e bassezza morale. Nella Bassa modenese, invece, i contadini, sanno molto bene a quale potere calorico equivalga tutto il grasso trascinato a fatica sulle zampette tozze e sproporzionate del maiale. Lo chiamano "al nimèl", l'animale per eccellenza. La stessa spicciola saggia filosofia è rispecchiata da un vecchio modo di dire modenese, che oggi ha allargato il proprio significato: "Màtter al pòrch a l'òra". Letteralmente significa "mettere il maiale all'ombra", in senso lato "sistemarsi, non avere più problemi per il futuro". Un tempo, quando il maiale era "ind-al ciùs", nel porcile, si era sicuri che almeno per buona parte dell'anno i prodotti ricavati dalla sua macellazione avrebbero garantito la sopravvivenza alimentare. Anche oggi, soprattutto nelle campagne, non si è persa l'abitudine di "fer pcaría", fare macelleria, per riempire la dispensa di prosciutti, salami, salsicce, lardo, coppe, ciccioli e carne fresca. C'è chi lo ammazza personalmente o lo fa macellare dal norcino. Il rito avviene quasi sempre all'alba, d'inverno, fra dicembre e gennaio. La nebbia che galleggia a qualche centimetro da terra si confonde col vapore dell'acqua bollente preparata per lavare la carcassa del suino.

Un tempo, il maiale, quasi sempre un maschio fra i 130 e i 180 kg., era ucciso in modo barbaro, sgozzato e lasciato morire per dissanguamento, perchè la carne restasse più tenera. Oggi la legge impone l'uso di una pistola veterinaria, che lo stende all'istante. La carne di maiale di prima scelta ha un color rosso pallido e una grana sottile, venata di rosso. Anche il lardo è di grana sottile, alto, bianco-rosato e sodo. La salsiccia è il prodotto della lavorazione del maiale più diffuso nel mondo. Normalmente la proporzione è: 70% di carne suina magra (carnetta di capocollo e traculo) e 30% di triti di lardo e ritagli di prosciutto. Il tutto è macinato finemente, insieme con sale, pepe, noce moscata, cannella e altre droghe, che variano secondo le zone di produzione. Il ripieno, di grana molto fine, è insaccato in un budello d'intestino tenue, ovino o suino, sino a formare un lungo tubo, strozzato con lo spago in tanti rocchi di circa10 cm. La salsiccia è pronta per essere mangiata dopo una breve stagionatura. Il suo uso in cucina va dalla preparazione di vari sughi per minestre asciutte all'arricchimento di ripieni e soffritti per zuppe, risotti, umidi e arrosti. Da sola può essere mangiata sia cruda (con qualche precauzione) sia cotta, arrostita in padella, bollita, in umido, fritta o alla griglia.

Il cotechino, che ha un impasto molto simile a quello dello zampone, è fatto di carne suina magra tagliata dalla spalla e dal guanciale (60 %), cotenna (da cui il nome, 30 %) e lardo (10 %). A questi ingredienti, tritati finemente, si aggiungono sale, pepe, salnitro, noce moscata, erbe aromatiche e spezie, che come per la salsiccia cambiano da zona a zona. Nel Modenese, chi rispetta la tradizione mette anche alcuni chiodi di garofano e qualche pezzo di cannella pestati. Nella Bassa c'è chi ama, come per il salame, un deciso sentore d'aglio. L'impasto è chiuso in un budello naturale (suino, bovino o equino), fine ed elastico, fissato alle due estremità con dello spago. La stagionatura è breve. L'insaccato resta ad asciugare 2-3 giorni al caldo e 2-3 settimane in un luogo fresco e asciutto. D'inverno può essere conservato, con qualche precauzione, anche 2-3 mesi. La forma e il peso (da 700 gr. a 2 kg.) non variano molto, poichè il cotechino è considerato dai produttori il tipico insaccato "formato famiglia". La cottura è quella tradizionale, come per lo zampone, in acqua fredda non salata, dopo aver delicatamente punzecchiato il budello in alcuni punti.

La storia romanzata vuole che lo zampone sia stato "inventato" nel 1511, durante l'assalto a Mirandola delle truppe papaline di Giulio II. Qualcuno trovò il sistema di conservare meglio, insaccandola nelle zampe anteriori suine, l'enorme quantità di carne di maiale macellata dopo la carneficina fatta per evitare che gli animali finissero in mano al nemico. Oggi lo zampone è preparato con carne fresca di maiale tagliata da diversi punti della carcassa, spalla, gamba, collo, geretto, pancetta e cotenna di gola. Il tutto, una volta, era pestato nel mortaio e tagliato con la mezzaluna, mentre ora è macinato da apposite macchine che mantengono costante la grana del ripieno dello zampone. All'impasto si aggiungono sale, salnitro, nitrato di potassio, spezie e aromi (pepe, cannella, macis, chiodi di garofano, noce moscata, timo, alloro e aglio) secondo una concia personalizzata da ogni salumificio. Inserito il ripieno nella cotenna delle zampe anteriori suine, ripulite e trasformate in perfette guaine, gli zamponi sono pronti. Cucita la parte aperta, passano in stanze fresche e asciutte dove si completa la loro stagionatura.

I tempi di cottura per il cotechino e altri insaccati del genere oscillano da 3,15 ore per un peso di circa 1 kg. alle 4 per un peso di circa 2 kg. Zamponi, cappelli da prete e cotechini precotti, per il risparmio di tempo offerto alla massaia (bastano 40 minuti), hanno quasi soppiantato i prodotti freschi. Il precotto in busta d'alluminio evita alla massaia, prima d'immergerlo nell'apposita zamponiera, di tagliuzzare l'insaccato fra gli unghielli, fasciarlo in una pezza di cotone e lasciarlo per alcune ore ad ammorbidire la cotenna in ammollo, operazioni che, se non ben eseguite, mettono a repentaglio la perfetta riuscita dello zampone.

Dal punto di vista culinario il maiale, considerato produttore di carne poco pregiata, non ha mai goduto i favori dei grandi letterati della cucina. Lo stesso Pellegrino Artusi cita appena una decina di ricette da preparare con carne suina. La caratteristica principale di questa carne, invece, è di adattarsi sia a pietanze semplici e popolari sia a piatti complicati e sofisticati. Un esempio per tutti: le cotenne con i fagioli, un piatto bertoldesco, sono oggi di gran moda sia nei menù di modeste trattorie sia in quelli di ristoranti con velleità di cucina raffinata.

La cucina modenese, che merita cittadinanza gastronomica internazionale con i suoi piatti forti, ha un vistoso collasso quando arriva al dessert e propone dolci casalinghi, paciosi, quasi esausti, perchè proposti alla fine di un pranzo che, strada facendo, ha già dato il meglio di sè. Ciò non toglie che la tavola modenese sia ricche di golose preparazioni che completano il finale del pranzo. Molte sono legate ad abitudini locali, come la Colomba di Pavullo, gli "sguazaròt" di Finale e i "zucarèin" di Zocca. Altre, come gli amaretti e la Zuppa inglese, rappresentano variazioni sui grandi temi della pasticceria nazionale, che in Italia, però, non ha mai trovato, "panetùn" a parte, un simbolo nazionale come la famosissima "Sacher torte" austriaca.

Il dolce più semplice e più antico è il bensone, preparato ancora con la stessa ricetta del XIV secolo. A quei tempi, il 1° dicembre, giorno del loro patrono, era offerto in dono alla corporazione dei fabbri e degli orafi. Frutto di un impasto di farina, uova, burro, latte e miele, arriva in tavola alla fine del pranzo, quando i bicchieri di Lambrusco sono ancora da vuotare ed è piacevole inzupparvi un po' alla volta la pasta dorata e morbida che diventa subito viola. Il bensone (nella Bassa chiamato "belsòn" o "busilàn") ha un'etimologia suggestiva che suggerisce la ritualità della sua presenza in tavola nelle occasioni religiose. Pane di benedizione, dal francese "pain de bendsôn", suggerisce qualcuno, ma c'è chi propone la derivazione dal francese "pain de bon son", pane di buona crusca, altrettanto accettabile dell'altra e suffragata dall'antica usanza di preparare i dolci con farina non setacciata. Il pane di Natale si preparava - e si prepara - quasi esclusivamente in prossimità delle feste di fine anno con un impasto di farina, uova, zucchero, burro, noci, pinoli, cedro e ciliegie canditi, mandorle, uva passa, cioccolato e cacao in polvere, arachidi e scorza di limone. Per mantenerlo morbido, si usa ancora spennellarlo con la saba, a mano a mano che si avvicina Natale.

Le frappe restano il tipico dolce di Carnevale, che sotto forme e nomi diversi (chiacchiere, nodi, cenci, galani, ecc.) è diffuso in ogni regione. Sono consumate spesso con la panna montata, quella che un tempo si chiamava lattemiele ("latmèl") perchè la panna era montata insieme con il miele. Difficile, invece, capire perchè la zuppa inglese, che in Italia ha trovato cittadinanza su tutte le tavole, ma solo in Emilia Romagna vanta l'accesa solare bicromia, non abbia origini ben codificate. Leo Codacci, in "Civiltà della tavola contadina", scrive che d'albionico questa zuppa ha solo il nome. Sarebbe stata creata da una contadina toscana al servizio di una famiglia inglese residente a Fiesole. Volendo fare economia anche in casa di chi non ne aveva bisogno, la donna avrebbe utilizzato i resti dei biscotti serviti col tradizionale tè delle cinque, riciclandoli in un dolce con gli altri "avanzi" di crema e budino. A dare alla zuppa "all'inglese" il rosso cremisi sarebbe stato l'Alchermes, un rosolio usato nel secolo scorso che oggi trova impiego solo nella confezione d'alcuni dolci. Il nome gli deriva dal rosso naturale ricavato dall'essiccazione di cocciniglie che in spagnolo sono chiamate "al quermèz".

Un altro dolce tipico, che deriva addirittura dalla cucina rinascimentale, caratterizzata dall'unione del dolce e del brusco, sono i tortelli fritti o al forno, ripieni di marmellata o di "savór". La tradizione ne ha conservato intatta la ricetta, che li vuole anche oggi sulle tavole natalizie insieme con la zuppa inglese. Quando sono preparati nel forno domestico, forse non hanno la medesima fragranza di quelli offerti in pasticceria, ma rappresentano per le nostre massaie un'altra possibilità di dare sfogo allo stesso estro culinario che rende ogni ricetta dei tortellini diversa l'una dall'altra. Forse è l'impareggiabile valore aggiunto di una cucina che come poche è sempre uguale ma anche diversa da se stessa.