HOME PAGE

Difendere il sapore del territorio

di Alberto Adolfo Fabbri
Presidente del Comitato Scientifico Presidente Slow Food Emilia-Romagna



Dunque, Modena. La città, il territorio e le sue genti, il dialetto ma soprattutto le sue contraddizioni. Poco importa se vissute serenamente ed accettate, perchè comunque tali restano. Modena ha interpretato simbolicamente uno dei miti, forse il principale, del Novecento. La velocità, con le sue ansie non solo futuriste, con la fretta quasi orgasmica di "arrivare", non importa dove, l'importante è avanzare; con la fiducia limpida, quasi fanciullesca, nel progresso e nello sviluppo; sempre coniugati insieme, mai separati, come un drago con due teste. Modena capitale dei motori e delle gesta di coraggio, ardimento e cinismo di piloti e di Drake.

Ma Modena è anche la custode diffusa della tradizione, famigliare oltre che aziendale, dell'Aceto Balsamico Tradizionale. Le batterie di botti dai legni diversi regalati per le nascite e gli sposalizi. Un prodotto straordinario, organoletticamente e gustativamente, che simbolizza perfettamente una cultura identitaria tra un prodotto, un territorio e la sua comunità. Un elisir  che ha come unici ingredienti il mosto cotto, il legno dei vaselli e il tempo che scorre lento, almeno venticinque anni per lo stravecchio, con il contorno di silenzi e profumi e gli sbalzi di clima tra estate ed inverno, tra afa e galaverna. Oltre ovviamente all'amore ed ai saperi dei maestri acetai che tra rabbocchi, travasi e prelievi producono l'aceto e rafforzano il mito.

Modena che pensa, quasi con un pensiero unico, ad esportare i prodotti di un'agricoltura sempre più massificata ed industrializzata, sfruttando una collocazione geografica favorevole. Modena che da diversi parti è stata raccontata con l'essere una realtà dove il treno dell'economia con i suoi vagoni di ricchezza e benessere ha schiacciato, perfino psicologicamente, la spiritualità o la fantasia a tutto vantaggio di una smodata "cultura della produzione".

Ma Modena è anche, ancora oggi, un territorio che ospita dei mezzadri quando la mezzadria è stata abolita ufficialmente negli anni Sessanta. E' una terra dove l'affabulazione e la fiaba non sono scomparse, tanto da consentire a Giuseppe Pederiali di poter raccontare nei suoi libri, le gesta dei Magalassi, dei Fojonchi, delle Bosme, delle Palpastrighe, dei Bigatti. Insomma, per dirla con Martin Cocai, non c'è modenese che non abbia la testa un po' fantastica o balzana.

Quando siamo partiti con la ricerca sulla filiera dell'agroalimentare e sul ruolo culturale-gastronomico e sociologico della Rezdora, di alcuni di questi spunti già eravamo consapevoli, altri ci sono nati, diciamo, tra le mani.

Questa ricerca con i suoi numeri importanti e significativi (oltre 170 ore di registrato, circa duecento persone, vere enciclopedie viventi, intervistate, tutte le interviste raccolte sia in dvd che nella forma scritta) è stata pensata fin dall'inizio con lo scopo di non disperdere il filo della memoria. Di contrastare il gap dovuto al passaggio tra società contadina e società industriale e post-industriale, dove la conoscenza del  passato e le radici  culturali comuni potevano essere drammaticamente oscurate per sempre, costringendo  le giovani generazioni  a non conoscere la storia quotidiana, gli usi ed i costumi dei padri, dei nonni, degli avi.

Per alcuni aspetti era prioritaria l'intenzione archivista e documentariale. Salvare la memoria era l'obiettivo e cosí  poterla trasmettere alle future generazioni - ma anche ai giovani di oggi - se non come parte del "vissuto quotidiano", almeno come parte del bagaglio intellettuale, di conoscenza storica ed etnologica.

Il lato più positivo che abbiamo invece riscontrato al termine di questa prima parte del lavoro è che una parte almeno della biodiversità, sia in agricoltura che ai fornelli, è ancora ben viva. E' ancora possibile difenderla "sul campo" e diffonderla. Ma abbiamo anche potuto registrare che in tanta parte (non certo in tutti) dei saperi contadini si conserva tanta modernità ed attualità, tanta logica, tanto buonsenso sia verso la natura che verso il benessere animale ed umano.

Molte delle testimonianze raccolte contengono veri insegnamenti che dimostrano come sia possibile pensare ad una diversa agricoltura, non incentrata sul modello industriale, dando cosí un contributo alla salvezza del pianeta, oggi cosí drammaticamente d'attualità.

D'altra parte conoscere e documentare il lavoro ed il ruolo famigliare, sociale e gastronomico delle rezdore (quanto è più bello questo termine rispetto al confinante e limitativo:massaia) significa venire in contatto con un'esplosione di diversità e di fantasia. La stessa ricetta, il medesimo piatto, subisce piccoli o grandi modifiche a distanza di pochi chilometri, alle volte da casa a casa, contribuendo cosí a cementare una cucina regionale identificabile ed al tempo stesso non uniforme ed omologata. La sostituzione, magari obbligata, degli ingredienti o la semplice contaminazione dovuta a incontri o conoscenze nuove, per non dire della indispensabile necessità di non superare soglie di spesa, facilitavano o imponevano piccole modifiche alla tradizione per poi diventare esse stesse tradizione.

La tradizione infatti, non è mai stata storicamente un modello astratto, frutto di una realtà statica ed immobile. Semmai la tradizione è l'insieme di una realtà in lento, se volete lentissimo movimento. Un movimento che proprio perchè lento è sempre risultato accettabile perchè compreso, e compreso perchè non stravolgente delle abitudini, anche di quelle più consolidate e apparentemente inamovibili ed irrinunciabili.
Conoscere la cucina di un popolo (i sistemi di produzione e lavorazione che la rendono possibile) non è solo un modo intelligente per capire la cultura e le relazioni di quel popolo stesso, ma è anche un modo divertente di intendere e vivere la vita. Contrastare l'omologazione alimentare e gastronomica significa esaltare la diversità e la varietà. Significa sottolineare la fantasia ed il piacere a scapito della noia della "solita minestra". Cosí come difendere una razza animale o una varietà vegetale significa difendere la vita stessa. Intendiamo la vita stessa degli uomini.

Il lavoro contenuto in questo volume ha quindi lo straordinario spessore di esaltare la biodiversità come valore. La biodiversità nei mestieri artigianali, nei sistemi di produzione agricoli, nella difesa dell'integrità ecologica di un territorio, nella molteplicità delle proposte gastronomiche.

La biodiversità è l'insieme degli ambienti naturali e delle specie viventi (della fauna e della flora) che popolano il nostro pianeta. Essa si sta progressivamente riducendo e nel corso di un secolo - quello che si è appena concluso - si sono estinte 250.000 varietà vegetali e continuano ad estinguersi, al ritmo di una ogni sei ore.

L'Europa ha perso il 75% della varietà genetica fra i prodotti agricoli ( l'America addirittura il 93%) e oggi meno di trenta tipi di piante nutrono il 95% del cibo utile alla popolazione mondiale. Nella sola Europa si è estinta la metà delle razze animali esistenti, e un terzo delle restanti 770 rischia di scomparire nei prossimi vent'anni.

Per pensare localmente basta rivolgere l'attenzione sul destino e sull'oblio (che oggi pare per fortuna contrastato) che ha colpito, dopo il boom economico degli anni Sessanta del Novecento, la vacca Bianca modenese o Valpadana, un duttilissimo e bellissimo animale, valido sia per il latte che per la carne che per il lavoro nei campi, sacrificato sull'altare di una maggiore produzione di latte garantita da bovini non autoctoni come la Frisona. Ancora il mito frettoloso e superficiale della ricerca della massima produzione, magari dimenticando che il latte di Bianca era organoletticamente più buono di quello di Frisona e che di conseguenza consentiva la produzione di formaggi di qualità superiore. Questo del settore lattiero caseario è un  esempio di come la smania della quantità a danno della qualità si sia poi trasformata in un boomerang.
La continua produzione di cibi dalla qualità scadente, ottenuti con processi tecnologici sempre "meno naturali" ed invasivi, ha infatti finito con il restringere i mercati di vendita, anzichè allargarli. Cosí come l'importazione di animali da ambienti lontani, con paesaggi e climi molto diversi, hanno poi costretto gli allevatori a massicce dosi di ricostituenti e di antibiotici. Il continuo stillicidio della chiusura dei caselli di montagna si può ricondurre a queste ragioni e ad altre, quali la mancata difesa e differenziazione del prezzo e l'introduzione dei "cru" di origine e provenienza. Ma non è questa la sede per una disamina di questi aspetti che ci limitiamo dunque solo a tratteggiare.

Tornando al nostro lavoro ed alla nostra ricerca: quanto risulta emozionante sentire dalla voce bonaria e dalla risata sonante di Marino Mongiorgi che: "la carne ha il sapore del contadino".  Un'affermazione semplice, dalla forza sintetica dirompente, frutto di una saggezza lapalissiana ma capace di far impallidire il migliore dei cosiddetti creativi, impegnati nella ricerca di slogan per un marketing o per una pubblicità sempre più spesso banali e ripetitivi.

Quindi difendere la biodiversità, salvaguardarla significa contrastare la perdita del patrimonio genetico, ma significa anche difendere il sapore di un territorio, i saperi di una tecnica di coltivazione o di allevamenti ecosostenibili, cosí come significa difendere il gusto di cibi e piatti che devono la loro unicità a procedimenti di trasformazione tradizionali oltre che all'arte della manipolazione gastronomica magari tramandata da generazione.

Sempre per pensare localmente, è il caso della sfoglia o del lambrusco. Quanta leggiadria e leggerezza nei movimenti di Lidia Cristoni, che accompagna con tutto il corpo le mani che impastano e poi l'andirivieni del mattarello che "crea" la perfetta rotondità della sfoglia. Quasi una danza, dove le ànche sono più importanti delle braccia, dove il cervello detta movimenti che ormai fanno parte del dna genetico. E come frenare l'afflato, quasi il tifo, che vorremmo esternare a Bruno Bellei, vecchio e saggio vignaiolo, quando afferma a proposito dei sistemi di lavorazione del Sorbara, ma in genere dei lambruschi: "Noi abbiamo sempre fatto la fermentazione naturale in bottiglia e in questo modo il vino si manteneva. L'autoclave non l'abbiamo mai usata. L'autoclave serve per fare il vino oggi e venderlo domani".

Ma, difendere e salvaguardare la biodiversità significa anche non arrendersi ad un mondo che pare sempre più alienato e distante dalla natura. Un mondo sempre più violento e distruttivo: in una parola più stupido, perchè cosí uccide se stesso. E pensare che oggi la scienza e la tecnica, quando non sono sovvenzionate e soggiogate a logiche di ricerca del massimo profitto, offrono strumenti tali da poter finalmente consentire di superare il dilemma leopardiano di una natura madre o matrigna. Esistono cioè le condizioni per instaurare un modello (culturale e produttivo) che semplicemente ponga l'uomo in una dimensione di rispetto nei confronti della natura e dei suoi limiti. Rispettare la natura  e non volerla asservire, lavorarla ma non sfruttarla irrazionalmente tanto da provocare guasti e inquinamenti senza ritorno. Questa potrebbe essere la nuova e virtuosa strada da intraprendere. Viceversa il diluvio dell'omologazione planetaria, la sete di profitto capitalistico privo di socialità mettono a rischio tanto la cultura gastronomica di intere comunità quanto la salute del pianeta e la vita stessa del genere umano.

Torniamo però ai temi precipui della ricerca. Il lavoro di conoscenza e tracciabilità della filiera agro-alimentare e di testimonianza delle tradizioni gastronomiche si è sviluppato tanto in pianura quanto in collina che in montagna. In città quanto nei piccoli centri.

La cucina delle rezdore è stata esaminata sia nella città capoluogo, dove prevalgono le ascendenze artusiane, borghesi e cittadine, sia nella Bassa dove più diretta è l'influenza della cultura estense e ferrarese; nelle aree di confine matildiche o in quelle petroniane, dove  spicca il "diamante" di Castelfranco Emilia: terra di dazi e di dogane, terra ideale (indipendentemente dalle secchie tassoniane) dove collocare accettabilmente, per i contendenti,  la nascita del piatto simbolo dell'intera emilianità: il tortellino.
Ma la ricerca ha cercato anche di affrontare, diciamo cosí, argomenti interdisciplinari e dalla portata generalista. Ciò ci è parso indispensabile per dare sia all'agricoltura che alla gastronomia quell'inquadratura storica e socio-economica senza le quali le testimonianze sarebbero sembrate, in un certo senso, sospese ed in parte astratte. Le pagine dedicate (citiamo solo alcuni argomenti ) alla vita quotidiana ed all'agricoltura in montagna. Alla cucina di collina. Ai sistemi di agricoltura ed alla cucina in pianura. Alle rotazioni delle colture agricole. Ai sistemi e alle tecniche di norcineria in montagna ed in pianura e le conseguenti differenze tra le diverse pcarie. Alle tecniche di compravendita degli animali e alle vie commerciali.

Su quest'ultimo argomento ci sovviene una curiosità che forse non è pleonastico rammentare. Prima dello scoppio della prima guerra mondiale, l'osteria situata nel  mercato bovino di Modena era il luogo dove si faceva più uso, in Italia, del già allora famoso champagne Krug. Era infatti consuetudine stappare una bottiglia alla conclusione degli affari di compravendita ed era già in voga l'abbinamento, che oggi pare forse stravagante, con la mortadella. La fonte è quella diretta della casa di champagne Krug.

Ci sono poi interviste che affrontano il tema del ruolo delle parrocchie, specie in montagna, e della vita conventuale. Della formazione originaria del movimento cooperativo. Del fenomeno migratorio, con al centro la figura sociale ed economica della mondina - molto spesso la stessa rezdora che esce dalle mura domestiche ed assume il ruolo di lavoratrice e per giunta migrante- e le pagine di straordinaria solidarietà umana e proletaria che questo fenomeno ha dato luogo.  Ed ancora, i metodi di allevamento e macellazione dei bovini e degli ovini, compresa la pastorizia e la transumanza che aveva il grande merito di avvicinare le popolazioni della montagna a quelle della pianura oltre che di garantire ecologicamente la  pulizia del sottobosco, impedendo cosí il divampare degli incendi o l'erosione dovuta alle piogge.

Altri temi generali e molto interessanti sono ad esempio la raccolta dei canti del maggio, dedicati alla raccolta del grano. Veri canti all'amore e dell'amore, che forse è esagerato definire arcadico, di certo interpretano la cultura agreste e contadina. Versi quali "in mezzo al grano l'amor si fa" rimandano con suggestione ai profumi della campagna, non privi di un loro forte afrore sensuale e potere afrodisiaco.
 La particolarità della Partecipanza Agraria di Nonantola e dei relativi partecipanti: contadini con il diritto d'uso di lavorare la terra, di trarne i frutti senza però averne la proprietà, che è restata per secoli "pubblica" cioè in comune a  tutti gli aventi diritto. Un ente di derivazione medioevale che ha oggi una straordinaria lezione da impartire al mondo moderno: si può scindere il diritto alla terra dalla sua proprietà, a condizione che la terra stessa non possa essere espropriata o alienata agli aventi diritto, che poi sono proprio quegli uomini che traggono da essa, con il proprio lavoro, il loro sostentamento.

 Lo sviluppo dell'osteria a partire dagli anni '30 e fino agli anni '90 del Novecento. Un tema, questo, a noi particolarmente caro, perchè sono state proprio le osterie il luogo deputato a salvare, seppure tra tante contraddizioni e diverse tipologie che le definivano, la cucina di territorio e la convivialità negli anni in cui il diluvio dell'omologazione e della frenesia - uniti al modello di produzione industriale- contrabbandato come l'unico possibile e come il più igienicamente salutare - aveva rischiato di farle scomparire definitivamente. Fino, per concludere questo ragionamento, al ruolo ed alle caratteristiche dell'agricoltura biodinamica ed agli insegnamenti steineriani, oppure al fascino, in parte malizioso, della raccolta e dell'utilizzo delle erbe spontanee e medicinali sia negli usi culinari che medici.

Non è poi, a nostro avviso, inutile e  privo di interesse l'elencare alcuni dei mestieri, dei saper-fare, delle attività che costituiscono la filiera agro- cosí come faremo successivamente per le specialità gastronomiche, i cibi ed i piatti, che sono capaci di regalare a chi è nato in questa terra ricordi e sensazioni, magari di un'infanzia lontana e apparentemente sopita - che abbinano colori e sapori, gusto e suoni.

Alla rinfusa, come ci aiuta la memoria, scusandomi per le inevitabili dimenticanze e lacune. Birocciai, coltivatori di patate e castagne, pastori transumanti, norcini, mondine, vignaioli, trattori e ristoratori, mercanti di bestiame, maestri acetai di balsamico tradizionale, mugnai, fornai, allevatori di Bianca modenese, macellai,veterinari, contadini, mezzadri, braccianti, partecipanti, raccoglitori di frutti di bosco e funghi, sfogline, casari, pescatori di rane e anguille, apicoltori, cestai, cuoche di famiglia a servizio, scrittori di usi e tradizioni agrarie e popolari, coltivatori di ciliegie, allevatori di maiali, rezdore. Ma anche cantanti del Maggio e guaritrici (starione).

Tutti costoro rappresentano un mondo ed una società che dovrebbe esserci famigliare e che invece non conosciamo, nonostante siano passati solo pochi decenni. Mestieri che molti trovano, a seconda dei punti di vista: romantici, superati, inutili, folcloristici, e invece sono semplicemente - come abbiamo scritto sopra - attuali e moderni, basta saperli leggere ed interpretare.

 La rezdora, poi, ha sintetizzato magistralmente il tutto. La rezdora è una figura femminile, una donna, una madre, una moglie. Non è una ovvietà sottolinearlo. La rezdora non aveva un ruolo subordinato, tanto più in una società come quella emiliana dove in diversi periodi storici la linea matriarcale è stata forse più forte della discendenza patriarcale.

Alcune delle donne intervistate hanno fascino e personalità da vendere, sono delle vere "intellettuali del desco famigliare", posseggono manualità, memoria storica e linguaggio per tramandare saperi e immagini colorite. Rosa Biciocchi, mentre prepara le crescentine nelle tigelle e muove con perizia gli alari e gli attrezzi del camino, ha modo di affermare: "Quelle povere donne là, si sono guadagnate il paradiso! Si sono strinate gli occhi tutte le mattine perchè bisognava cuocerle (le crescentine ndr) con il minor fuoco per fare economia".

Mirella Fiandri, mentre maneggia una bella pancetta arrotolata e ne misura visivamente e tattilmente la stagionatura e il grado di umidità, motteggia: "Una pancetta cosí è come la miss Italia". Maria Lambertini mentre toglie gli amaretti dal forno della cucina famigliare puntualizza: "Ci vogliono 25 minuti perchè siano pronti". Saggezza popolare, ironia e professionalità: questi potrebbero essere con buona approssimazione i vocaboli per definire le rezdore.

Non possiamo in conclusione non fare accenno più direttamente al continente della cucina e della gastronomia modenese. Prodotti, cibi e piatti conosciuti in Italia e nel mondo, dalla fama che travalica le naturali barriere del territorio per farli assurgere a ruoli internazionali senza però scalfirne la provincialità.
Ma anche prodotti, cibi e piatti meno noti ma non per questo meno nobili, gustosi, ricchi di storia e di leggenda. Tra i primi certamente l'aceto balsamico tradizionale, il Parmigiano-Reggiano, il tortellino classico in brodo di cappone, la sfoglia all'uovo ed i formati che se ne ricava, a partire dalle tagliatelle poi servite con un ragù di carne, i tortelli di zucca, la zuppa inglese.

Tra i secondi: sua maestà il Lambrusco, anzi, correttamente, i Lambruschi (non parliamo solo dei vitigni più conosciuti come il Sorbara, il Castelvetro o il Grasparossa) che stanno vivendo una stagione di rinnovamento produttivo molto interessante, tanto da far cadere sedimentati e ingiusti luoghi comuni; il prosciutto di Modena, da non confondersi con altri cugini più noti; la crescentina ( per i non modenesi, volgarmente tigella); il gnocco fritto (per i non modenesi, volgarmente crescentina fritta ); il gnocco sotto la cenere, il borlengo nel sole con relativa cunza, i ciacci, il frittellozzo, le frittelle di castagne, i tortelli di patate o castagne o ricotta, la pasta al torchio magari con il piccione, le polpettine, la polenta negli sconfinati modi di condirla,  i calzagatti (da altri conosciuti come cassagai o ciribusla o paparuccia o bagia ), le frittelle di baccalà con l'anima, i maltagliati con i fagioli, la minestra di castagne secche, il pollo ed il coniglio alla cacciatora, gli arrosti o i bolliti (da non confondersi mai con il lesso) con salse verdi o ai peperoni o con il mitico friggione a base di cipolla e pomodoro. E ancora: torta degli ebrei, bensone, crèm caramel, amaretto di Spilamberto e ciliegia Moretta di Vignola.

Anche questo elenco è puramente indicativo e non certo esaustivo, ma è sufficiente a sottolineare la ricchezza e la varietà di una cucina in parte assolutamente originale ed in parte - non potrebbe essere diversamente - di derivazione emiliana. Con un tale patrimonio, alle spalle la ristorazione dovrebbe poter assicurare qualità e futuro, ma non sempre ciò si traduce nella realtà.

Il tema della ristorazione: ecco un altro bel tema da affrontare eventualmente con un altra ricerca! Basti in conclusione ricordare che anche per la ristorazione, in particolare quella attenta alla qualità dei piatti proposti, è forse arrivato il momento di introdurre una sostanziale rivoluzione. Non basta più riproporre i piatti della tradizione, occorre chiedersi cosa finisce nel piatto!

Occorre dare maggiore attenzione (molti per fortuna già lo fanno) alle materie prime, alla loro coltivazione (biologica o  ancor meglio biodinamica, e comunque Ogm Free), alla loro provenienza (meglio se da mercati locali) e alla loro qualità gustativa ed organolettica. Non è male rivoluzionare un poco anche la carta delle vivande o menu che dir si voglia, inserendo anche l'elenco dei fornitori e spiegando la storia e la cultura di un piatto.

Il mestiere del ristoratore o del cuoco, assieme a quello della rezdora - nella sua versione odierna, non più a tempo pieno - rappresentano il terminale di una filiera produttiva virtuosa, dove tutti i soggetti che la compongono trovano una loro giusta remunerazione e nei cui confronti il consumatore cessa di avere un atteggiamento passivo o supino, per elevarsi a moderno gourmet, a co-produttore.