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25/07/2006

Agricoltura


Documento senza titolo

Recovato, Frazione di Nonantola
Germano Serafini e Elisabetta Battilani
Agricoltore e rezdora
La coltivazione della canapa  

PARTE 2

Oltre al grano cos’altro si seminava?
Germano: oltre al grano nella nostra zona a ghe stè un grande periodo molto lungo che si faceva la canapa, da noi era la zona della canapa.
Elisabetta: e pomodoro.
Germano: pomodoro più nel nonantolano.
Quand’è stato questo periodo di coltivazione della canapa?
Germano: partì dal ’30 verso il ’50, la canapa si lavorava in famiglia e ogni famiglia più o meno aveva il macero, quei laghetti, maceri perché si macerava, allora si tagliava a mano questa canapa poi si lasciava seccare al sole…
Quando si seminava la canapa?
Elisabetta: in primavera.
Germano: in primavera, per San Giuseppe il 19 di marzo che qui a Castelfranco è la festa del paese, per San Giuseppe noi ragazzetti avevamo voglia di andare alla festa e il papà ci diceva “no, c’è da badare alla canapa” perché nasceva lì per marzo, per San Giuseppe appena nata, che spuntava. Gli uccellini ne erano ingordissimi perché era una piantina da mangiare buonissima, allora per salvarla gli davamo con quelle fruste da fare i ciocchi.
Elisabetta: per smarrire questi uccellini. Romano: quando era cresciuta era a posto, cresceva ed era una pianta abbastanza lunga, 3 metri e passa. Quando era matura ad agosto si tagliava tutta a mano coi falcetti, si faceva dei fasci così poi si mettevano incrociati, si lasciavano lì 6-7 giorni al sole, si seccavano le foglie, poi si andava a sbattere queste foglie che crollassero e restava solo il gambo e lì c’era la fibra della canapa. Si facevano, si legavano dei bei fasci, si mettevano a macerare nel macero, si faceva un bel lungo, c’erano le corde e ogni fascio di canapa si legava assieme per stare unito. Nel macero c’erano dei sassi, quei sassi raccolti nel Panaro, e si distribuivano perché stessero sott’acqua questi fasci. Una volta macerati dopo 8-10 giorni si andava a liberare dai sassi, tornavano a galla, andava dentro la persona a lavarli, poi si buttavano su, si stendevano nel campo ed era già staccata la fibra; poi una volta asciugati al sole questi mazzi andeva a casa as ciameva un macchinotto che la trinciva e saltava fuori la fibra senza gli stecchi. Queste fibre poi non erano mica finite, dovevano batterle con il gramat: erano due ascie, dentro ci andava una altra che a mano per staccare tutti gli stecchini. Una volta ben pulite ste manelle si facevano dei bei fasci e si vendevano agli industriali della canapa.
Elisabetta: la conciavano e poi si filava, poi a mettere sù il telaio per fare la tela che io l’ho fatta, io ho filato e fatto la tela.
Dove ha imparato lei Elisabetta a filare?
Elisabetta: qui con la nonna, mia suocera perché dovevo fare la dote di mio marito, l’ho fatta io.
C’erano delle scuole dove si poteva imparare? Anche a fare i ricami?
Elisabetta: i ricami sì, io ho imparato a scuola.
Lei che scuole ha fatto?
Elisabetta: sempre le Corni dove c’era anche il lavoro.
Le Corni che scuole erano?
Elisabetta: le scuole professionali. Più che altro era basata sul lavoro, abituavano le ragazze anche al lavoro, al lavoro di cucito.
Quando si facevano queste scuole?
Elisabetta: dopo le elementari, adesso la Deledda, mi sembra che abbiano cambiato nome.
Cosa vi insegnavano in questa scuola?
Elisabetta: si imparavano anche le materie tipo storia e geografia, le materie scientifiche, si stava dentro tutto il giorno, si stava là perché si impegnava molto tempo anche col cucito e cucina, si faceva anche cucina.
Come si faceva cucina?
Elisabetta: il giorno destinato alla cucina ci organizzavamo con la spesa, ognuno portava, poi ci dividevamo. Se qualcuno aveva speso qualcosa in più, organizzando quel determinato pranzo da lì si tirava fuori la caloria, tante calorie quanti commensali eravamo diviso perché si diceva che noi che eravamo giovani e magari facevamo sport o robe del genere perché c’era la ginnastica era una scuola normale come tutte le altre, e in più c’era queste perfezione che avviava anche una donna a tener dietro a una casa. Per me è stato esemplare, una scuola fondamentale per me, che poi non avessi quella cultura che avevano gli altri che avevano fatto dei licei quello ammetto anch’io di non essere a quell’altezza…
Che cosa si imparava di diverso a scuola, ad esempio in cucina, rispetto a quello che si imparava a casa?
Elisabetta: eh c’era, c’era perché magari in famiglia si portavano avanti delle tradizioni anche grossolane, lì c’era anche uno studio, una certa educazione e finezza. Magari in famiglia le nostre mamme non le avevano prese da nessuna altra parte. Penso così, almeno per me è valsa tanto; io poi li ho fatti arrabbiare i miei figli, gli dico:“le vostre ragazze, magari hanno tempo, in attesa di trovare lavoro, mandatale a scuola di taglio e cucito” non l’avessi mai detto, me ne sono sentita dire di tutti i colori… però adesso se c’è qualcosa da fare arrivano, vengono dalla nonna. Io lo faccio volentieri però una donna quando intende sposarsi per me le cose fondamentali sono da fare perché poverette dopo potrebbero essere la causa dei bisticci…
Quali sono secondo lei queste cose fondamentali?
Elisabetta: secondo me tenere in mano un ago… cara la mia ragazzina… in mano un ago o una padella, quelle sono le fondamentali.
Germano: allora facevano le camicie, i pantaloni.
Elisabetta: noi facevamo anche per i nostri bimbi la maglia e facevamo le magliette per i nostri piccoli perché adesso guadagnano.
Germano: … e vanno a comprare.
Elisabetta: … buttano, ma una volta non si buttava, si teneva tutto.
Lei ci diceva che in questa scuola le insegnavano anche la cucina, le insegnavano proprio a cucinare?
Elisabetta: eccome.
Come fare la pasta… come fare la sfoglia?
Elisabetta: sì, certo, ci insegnavano però io all’esame mi sono trovata in cucina, mi hanno fatto fare la pastella, io avevo imparato a farla a casa a dir la verità però chi non aveva mai visto farina e mattarello lì lo imparava. Che poi sia valso per imparare per tutta la vita non lo so, perché poi io l’ho continuata a fare e tuttora la faccio.
Come le insegnarono a casa.
Elisabetta: sì, a casa mia, però lì dipende poi anche dal buongusto. Quando la fai se è caldo bisogna tenerla più morbida se no si secca sotto le mani, se è una giornata umida bisogna tenerla un po’ più asciutta insomma: lì poi va con la propria testa da usarla.
Si ricorda qualche piatto che imparò a scuola?
Elisabetta: sì, queste qua le ho rifatte e sono valide, adesso vado tutto a usta, un tant al braz, però le ho fatte queste qua, anche il dolce mi è riuscito molto bene, da ragazza lo feci qua che c’era il forno a legna dalla tua mamma. Ci siamo trovati in gita, mi sono presa la torta che ho fatto io con questa ricetta, anche suo fratello dice “oh, questa sì!”
Che dolce è?
Elisabetta: la torta di mandorle, questa l’ho fatta che ho incantato il mio uomo.
Germano: mi incantavano i suoi occhi.
Elisabetta: anche la torta.
Volevo chiederle un’altra cosa sulla scuola, all’epoca c’erano molte ragazze?
Elisabetta: molte ragazze.
Perché magari si iniziava presto a lavorare in campagna?
Elisabetta: sì, ma io andavo tutti i giorni a Modena in bicicletta.
Germano: lei aveva una mamma e un papà che l’hanno lasciata andare a scuola in bicicletta però nel campo, finito le elementari…
Elisabetta: …si andava già.
Germano: tra l’altro ai miei tempi qui al mio paese c’era la terza elementare, poi si finiva lì. Dopo per poter proseguire dovevo andare a Gaggio in bicicletta, che a Gaggio c’era fino alla quinta, per avere un qualcosa in più poi le scuole medie sono venute molto più avanti, ma ai miei tempi uno che aveva il massimo di studio si fermava alla quinta elementare.
Quindi Elisabetta lei è stata una privilegiata.
Elisabetta: molto, i miei mi hanno lasciata andare anche avanti e indietro in bicicletta; nel periodo della guerra sono dovuta correre in un fossato dentro una carreggiata perché c’era quel picchiatello che lì dal Navicello, allora io dentro al fosso.
Germano: al tempo della guerra a gh’era dei ponti importanti. Quello di Navicello, quello di Sant’Ambrogio, gli inglesi e gli americani cercavano di attaccarli, nuetar i ciamevan i picchiatelli perché dall’alto vedevano ‘sto ponte, si buttavano in direzione poi sganciavano due bombe con la speranza di colpire questi ponti; quello di Sant’Ambrogio è stato colpito, quello di Navicello a s’è sempra schiveda.