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01/08/2006

Cantiniere


Documento senza titolo

Castelvetro
Vittorio Graziano
Vignaiolo  
Lambrusco fermentato in bottiglia
Il trebbiano “murato”  

PARTE 3

Qui siamo nel campo, e in cantina?
Vittorio: in cantina, la vinificazione tradizionale non è una cosa molto complessa perché il problema fondamentale era fare uve buone. Poi si ci sono alcuni vini particolari che venivano fatti; per quel che riguarda il lambrusco, fa la sua macerazione non molto prolungata, comunque di qualche giorno perché il grasparossa cede molto facilmente il colore, quindi non ha bisogno di lunghissime macerazioni, soprattutto se è uva che proviene da viti poco produttive, perché è fondamentale insomma, poi la fermentazione viene fatta a volte con il controllo della temperatura.
 Ma anche allora si faceva?
Vittorio: no, allora non si faceva, allora si faceva dei travasi, si facevano molti travasi e il travaso un po’ ha una certa funzione, per esempio di rallentare la fermentazione, quindi di non far scaldare più di tanto il vino. Poi ovviamente ogni annata fa un po’ testo a sé. Intanto il grasparossa si vendemmia a ottobre, quindi un gran caldo non c’è più, però può succedere che ci siano degli ottobre molto caldi e lì una volta avevano sicuramente più difficoltà, si aiutavano col filtro, coi travasi, per rallentare le fermentazioni. Oggi magari si rinfresca un po’…però solo in caso di necessità. La ricchezza era questa perché il vino per conservare la sua integrità deve conservare tutto quello che ha in natura, ovviamente, e quindi non aggiungendo lieviti di produzione industriale o selezionati altrove si trovava nel vino la terra e questa è la cosa importante, che il vino sappia della terra da cui viene, quindi non c’era apporto di enzimi, non c’era apporto di lieviti esterni nel vino, ti trovavi la terra da cui veniva l’uva, questa era la ricchezza.
 La ricchezza è anche poi la difficoltà della vinificazione?
Vittorio: mah, la difficoltà….
 Si poteva perdere il controllo?
Vittorio: lì stava nella avvedutezza del cantiniere, però se le uve sono sane e uno è un po’ accorto dei problemi non ce ne sono mai, è difficile.
 Anche la tecnica cambiava da un anno all’altro perché i lieviti sono talmente diversi…
Vittorio: anche questo è un patrimonio perché c’è l’annata, c’è la terra. Bisogna fare un po’ una rivoluzione copernicana nella valutazione di queste cose, o quanto meno distinguere fra le esigenze industriali, quindi di standard costanti, e invece il prodotto artigianale della campagna che appunto che fa della terra e della differenza tra un annata e l’altra il patrimonio, la propria ricchezza. D’altronde in altri zone è riconosciuta l’annata, come valore, il fatto che nel lambrusco questo non sia riconosciuto per me è un limite culturale. La natura ha un senso anche qua, non è che l’ha solo in Piemonte, tutto questo è un patrimonio a mio modo di vedere.
 I lieviti erano i propri quelli dell’uva?
Vittorio: esattamente i lieviti erano i propri, comunque l’uva ne dispone di migliaia di ceppi, non è che ce ne sia solo uno; oggi io sono anche un po’ ostico verso questi prodotti esterni, lieviti selezionati in Uruguay, ma non interessano oggettivamente perché io coltivo la mia vigna a Castelvetro e non capisco perché debbo aggiungere un lievito che viene da un’altra terra, faccio per dire l’Uruguay per fare un esempio, potrei dire Australia, Francia. Io vorrei che voi trovaste nel bicchiere la mia terra, la terra dove è nata la vite, dove è venuta sù l’uva, dove è venuta sù la pianta, dove ho raccolto l’uva, ecco perché sono refrattario a una iper manipolazione dei vini, perché più manipoliamo e più ci allontaniamo dalla terra e anche diceva il buon Veronelli che anche qualche difetto appartiene al patrimonio del vino, altrimenti un vino troppo perfetto è fatto dal tecnico e non dalla terra, quindi… può darsi che vada bene anche quello lì, però io opterei per un vino che sappia della terra.
 Anche perché nell’agricoltura di cui noi stiamo parlando non c’era nessuno che era uno specialista, almeno in queste zone. Di fatto il contadino aveva magari il filare, faceva il vino per sè ma non c’era una grande ricerca sul vino.
Vittorio: sì, questo è vero.
 Questa attenzione a fare del buon vino quando è nata secondo te? O è storica anche questa? Chi era qui che faceva del buon vino?
Vittorio: mah…qui c’era qualche contadino che magari non lo vendeva neanche, tu lo potevi assaggiare a casa sua se eri suo ospite. Non sono dei nomi, non sono mica conosciuti, non sono noti, io ho conosciuto dei produttori, dei contadini in sostanza che avevano le vacche e facevano anche un po’ di vino, dei vini eccezionali, delle cose magiche che io ho sempre considerato mitiche. Tra l’altro un’altra cosa che è stata introdotta qui, però nel periodo dopo l’Unità d’Italia fino agli anni ’50-60, nello spostamento di famiglie contadine sempre a mezzadria sono venuti nel bolognese a mezzadria qua perché qui c’era il lavoro. C’erano le vacche, c’erano le stalle per il parmigiano, per il latte e hanno introdotto qualche vitigno bolognese e come bianco il sauvignon e come rosso il barbera in particolare.
 Poi ovviamente mescolavano il tutto e io ho trovato dei capolavori inimmaginabili con tutti questi tagli qua, cioè facevano un bianco con tutte le bianche locali e il sauvignon e il rosso con il lambrusco e il barbera anche. Questo è un filone che voglio cercare di ripercorrere, naturalmente sono tutte testimonianze orali, non c’è niente di scritto. Non c’è neanche più il vecchio, perché almeno qualche testimonianza orale è rimasta e io ho avuto la fortuna di raccoglierla. Per esempio sto studiando un taglio con barbera e lambrusco per cercare di ripercorrere quel filone lì, lo farò appena posso, però ce l’ho in mente già da tanto tempo; sul bianco invece ho già cominciato, faccio un taglio, utilizzo tutte le uve, le migliori della zona più un po’ di sauvignon, sauvignon le cui marzie le ho prese proprio in vigne storiche del bolognese perché oggi i sauvignon sono conosciuti quelli molto aromatici che vanno poi a stravolgere il vino finale per cui quelli non mi interessano. In seguito voglio provare a fare quel taglio con barbera e lambrusco: adesso ho cominciato a mettere alcune piante perché questo si rifà a quella tradizione popolare diciamo così, perché l’enologia da noi è stata introdotta forzatamente, senza valutare a pieno la storia che noi avevamo, è stata un po’ catapultata lì, si è deciso “facciamo il lambrusco grasparossa 85%” e via, ma è stato deciso a tavolino in un certo seno, burocraticamente, senza attingere alla tradizione, senza valutarla a sufficienza.
 Invece il grasparossa non era così?
Vittorio: non era così, il grasparossa puro non lo faceva nessuno, oppure ne facevano qualche damigiana dolce da dolce da dessert, da bere col bensone, ma erano quantità limitate. Il vino da bere era un taglio con delle percentuali nettamente diverse rispetto ad oggi, anche per questo mi sta un po’ scomoda la D.O.C. perché ti impone senza poi delle grandi soddisfazioni debbo dire, ti impone dei tagli che non sono quelli della migliore tradizione, della tradizione più autentica, ma questo è un discorso a parte. Un altro vino per esempio che veniva prodotto qui da noi era a base di trebbiano modenese puro, in questo caso in purezza, e veniva chiamato trebbiano murato. Consisteva poi in questo: veniva pigiata l’uva con le bucce, uva bianca però con le bucce, naturalmente di annata extra. Il trebbiano murato veniva sotto in annate ottime, uve sane super mature, raccolte verso fine ottobre. Veniva pigiata con le bucce, appena alzavi il cappello veniva steso uno strato di gesso, ecco perché si chiama murata; veniva fatta questa gettata di gesso impastato, praticamente per chiudere, che facesse da tappo. Veniva lasciato un gommino, uno sfiato per favorire l’espulsione dell’anidride carbonica nella fermentazione, veniva fatto due volte normalmente, perché si crepava e veniva lasciato fermentare a lungo fino alla Vigilia di Natale, quasi due mesi. Adesso non so se la Vigilia di Natale abbia anche una componente mistica, non lo so, il fatto è che veniva lasciato a lungo sulle bucce e veniva estratte dopo quasi due mesi. Si otteneva - questo l’ho sentito dire, non l’ho mai assaggiato - un bel vino dorato giallo, dorato, bello carico, a volte dolce a volte non dolce a seconda dell’annata; un vino che si faceva quasi eccezionalmente. Questo ho provato già a farlo con risultati discretamente interessanti, quanto meno è una bella curiosità rispetto a questa tradizione.
 Questo uso del gesso in realtà a cosa serviva?
Vittorio: in realtà il gesso non serviva a niente in quanto tale. Il problema era chiudere, serviva chiudere per evitare il ritorno di ossigeno e eventualmente l’acetificazione del cappello, tutta la funzione era quella lì perché il gesso non andava a contatto con il vino, veniva steso……
Parliamo di tini?
Vittorio: nel tino, siccome non disponevano allora del coperchio, per cui quando il cappello era alzato sulle bucce asciutte veniva steso questo strato di gesso praticamente per creare una chiusura, un tappo, un coperchio.