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I pani



Farina di frumento, acqua e sale.

Sono questi gli ingredienti dei primi pani non lievitati, i pani azzimi, ed in particolare delle focacce cotte non nel forno ma con calore asciutto su pietre roventi: una tradizione che dura almeno da 12.000 anni, quando furono selezionati frumenti con spighe non deiescenti e chicchi nudi direttamente macinabili per produrre farina, una tradizione nata nella Mezzaluna Fertile che da lí si è spostata a tutta l'area del Mediterraneo e che nella provincia di Modena si è conservata fino ad oggi.

Le crescentine cotte nelle tigelle ci riportano agli albori della civiltà: nel filmato, Marina Bellei impasta solo acqua, sale e farina ed usa le tigelle (dischi di materiale refrattario) scaldate in mezzo al fuoco del camino. Eppure le crescentine si gonfiano, nonostante non sia stato usato il lievito: per questo si chiamano crescenti.

Farina di grano tenero tipo zero (o meno raffinata), acqua e sale, a cui si aggiunge il lievito per fare il pane nel forno a legna come fanno, soprattutto d'estate, ancora tantissime rezdore. Ma se oggi usano il lievito di birra, cioè funghi unicellulari della specie saccharomyces cerevisiae, responsabili anche della fermentazione della birra, fino ai primi anni cinquanta tutti usavano l'alvador, il lievito madre, «che in passato era semplicemente un pezzo di impasto conservato, ed è costituito da una maggiore diversità di microrganismi. I due gruppi principali sono i lieviti ambientali (saccaromiceti) e i batteri lattici. è necessario tenerlo ossigenato con ripetuti rimpasti, chiamati rinfreschi, con acqua e farina per mantenere la giusta fauna microbica, altrimenti il lievito tende ad inacidire e la componente dei saccharomyces a deperire. è perciò un lievito più difficile da mantenere, che richiede maggiori cure, più lento nella lievitazione ma con maggiore spettro aromatico» (Autori vari, Dentro al gusto, Edagricole, 2007, p. 227).

Il pane, di solito, si faceva una volta la settimana ed era un'operazione che coinvolgeva tutta la famiglia perchè era piuttosto faticoso fare l'impasto, pur utilizzando la grama o gramola ed era perciò un compito che veniva lasciato ai maschi.

Purtroppo i lieviti madre, che costituivano un vero patrimonio di biodiversità, trasmesso da una generazione all'altra insieme alle tecniche di panificazione, sono andati irrimediabilmente perduti, insieme all'abitudine di fare il pane in casa.

Una tappa intermedia, soprattutto nei paesi, perchè nelle città il mestiere di fornaio si sviluppò fin dal medioevo, fu quella dell'apertura di forni che venivano affittati ai contadini, che a turno cuocevano il pane, poi - con pezzi di pasta avanzati e conditi con olio, strutto, prosciutto, o pancetta - focacce, stria, gnocco, gnocco ingrassato, magari una teglia di lasagne e, quando il forno si raffreddava, le torte.

Il capitolo dei pani, anche nei filmati, non comprende una vera e propria preparazione di pane lievitato, ma alcune varianti di pani che in origine non avevano lievito ed erano basati soltanto su acqua, farina e sale e che, nel tempo, sono stati arricchiti, non solo con il lievito ma anche con l'aggiunta di condimenti come l'uovo o il latte e, soprattutto, di grassi. Fra questi, il grasso principe per i contadini modenesi, quello di maiale o sotto forma di strutto o di lardo macinato.

Ciò che colpisce di più nella preparazione delle crescentine è proprio la grande manualità e gestualità. Non tanto nella preparazione dell'impasto, non molto diversa da quella dell'impasto per la sfoglia, quanto nella lavorazione a due mani delle palline di pasta prima di distenderle con qualche colpo di mattarello, e poi davanti al camino nel costruire le pile – una tigella, una crescentina, una tigella, una crescentina, magari inframmezzate dalle foglie di castagno – nell'impilatore o, come fa Rosa Biciocchi, una sull'altra, utilizzando ritmicamente le pinze per afferrare le tigelle roventi e le mani libere per appoggiarvi le crescentine e contemporaneamente governare il fuoco.

Oggi questo patrimonio di abilità si sta perdendo.

In pianura tutti chiamano le crescentine tigelle (come le pietre di refrattario) tanto che ormai anche i montanari si sono rassegnati.

E le tigelle se non vengono comprate già cotte e poi riscaldate in casa, spesso vengono fatte in macchine elettriche o a gas, chiamate tigelliere, comprando al forno l'impasto già pronto.

Una modalità di preparazione più vicina alla cottura al camino è quella che utilizza stampi o cotte di ferro riscaldate sul gas: la presenta nel suo intervento Rita Milani.

Ma non è cambiata solo la tecnica di cottura: rispetto al passato, si è arricchito l'impasto. Chi ci mette un po' di lievito di birra, chi di bicarbonato, e poi un po' di latte, un po' d'olio, ed accanto al condimento tradizionale si usano anche tutti i salumi, i formaggi molli e, per finire, anche la Nutella.

Le crescentine sono dischi di pasta lavorata più o meno piccoli e derivano dalla crescente o dallo gnocco, un disco più grande che ancora oggi viene cotto come le crescentine, al calore della pietra del camino, sotto la cenere, come testimonia Attilio Pizzi.

La stessa pasta delle crescenti veniva fritta nello strutto, in una padella di rame, al calore delle braci del camino.

Anche in questo caso originariamente sembra che si chiamasse gnocco un disco di pasta della grandezza della padella che veniva fritto bucherellandolo, per impedirgli di gonfiarsi, e poi servito a fette con del salume. Una tradizione che ancora oggi si conserva anche se il termine gnocco fritto viene ormai comunemente utilizzato per definire i rombi di pasta fritta preparati da Maria Bozzali, che aggiunge al solito impasto non solo il lievito ma anche un goccio di latte e un po' di strutto.

L'aggiunta in piccole quantità di grassi, lubrifica i vari strati di pasta, favorendone lo sviluppo e la lievitazione.

Ma l'impasto non è l'unico modo di utilizzare acqua e farina: c'è anche la pastella, cioè un composto che contiene più acqua e rimane più o meno liquido, nel quale lo sviluppo del glutine è ridotto al minimo, per cui la sua funzione come sostegno della pasta passa all'amido che è quasi completamente gelatinizzato vista l'abbondanza d'acqua, e alle proteine del latte e delle uova che vengono eventualmente aggiunte e che coagulano durante la cottura.

In provincia di Modena la pastella la chiamano colla e tradizionalmente la cuociono, come l'impasto per crescentine e gnocco, a fuoco indiretto, anche se in questo caso la pietra viene sostituita dal metallo scaldato sulle braci o fritta.

Un primo esempio è quello del borlengo cotto in una padella chiamata sole o rola, quella che un tempo si usava al camino ed ora su braceri o fornelli a gas all'aperto, secondo la tradizione dei territori che vanno da Vignola su per l'Appennino verso Bologna, ed in particolare comprendono Guiglia, Zocca e Montese.

Nel borlengo presentato da Iole Duzzi e da Renzo Campioni viene aggiunto un uovo e la colla viene distesa a formare dischi sottilissimi e croccanti, quasi un velo, poi conditi, come nel caso delle crescentine, con battuto di lardo o di pancetta o di salsiccia, aromatizzati da rosmarino ed aglio ed una spruzzata di parmigiano. Ma in molti casi il numero di uova può crescere insieme allo spessore del borlengo.

La colla, ancora con lo stesso nome di borlengo oppure, come a Palagano, quindi sul versante dell'Appennino che guarda verso Reggio Emilia, col nome di ciaccio, viene cotta tradizionalmente nel Frignano utilizzando due palette di ferro, le cotte o cottole, anch'esse scaldate direttamente sulle braci. Chiaramente con questa tecnica il disco rimane un po' più spesso e nell'impasto non viene aggiunto l'uovo e lo stesso viene tenuto un po' più denso, magari schiacciando poi le cotte con una pietra o un legno.

Sarebbe interessante sapere se è nato prima il borlengo o il ciaccio, sia come tecnica di cottura (la rola o le cotte) sia come consistenza (sottile o un po' più spesso).

è molto probabile che l'origine sia comune: la rola, infatti, era inizialmente una padella da camino utilizzabile per altre preparazioni che è poi stata foggiata e perfezionata, in particolare con un bel manico che la rende molto più maneggevole, specificamente per la cottura del borlengo, mentre nella sua testimonianza preziosa Bruno Ricchi ricorda che per i ciacci i vecchi utilizzavano el sulad, appunto una padella di rame da camino, poi sostituito dalle cotte, nate specificamente per quella preparazione.

Un'origine comune dunque, che poi può aver dato luogo ad evoluzioni diverse: Gianni Genzale, in una bella testimonianza di Storie di Terra e di Rezdore, ricorda come certi spartiacque territoriali, come il fiume Panaro, potevano creare delle barriere tali che poi delle tradizioni potevano svilupparsi in maniera autonoma.

Sempre nel versante reggiano, anche la colla del ciaccio, tenuta più densa, viene fritta e si chiama sulada, nome che ricorda molto quello della padella, e in tutto l'Appennino, nella colla, la farina di frumento può essere sostituita con quella di castagne per fare i ciacci di castagne con le cotte ed i frittellozzi fritti nella padella, entrambi poi conditi con ricotta fresca in alternativa (per i ciacci) ad un condimento salato.

L'ultima ricetta filmata della sezione dei pani è dedicata alla torta degli ebrei o sfogliata, una sorta di millefoglie salata, condita con strutto e parmigiano, tradizione davvero singolare della zona di Finale Emilia, esempio di contaminazione non solo fra culture, ma anche fra religioni diverse.

Sembra che sia stato un ebreo convertito, Giuseppe Alinovi, a diffondere la ricetta di una torta preparata dalla comunità ebraica, basata su pasta sfoglia, formaggio e grasso d'oca, sostituendo lo strutto di maiale all'originario grasso d'oca per screditare i suoi ex correligionari.

Fatto sta che con questo condimento ha avuto un tale successo da diventare un po' il piatto emblematico di Finale Emilia.

Ciò che è interessante è che la pasta sfoglia condita è una preparazione molto diffusa in tutto il mediterraneo ed in Asia Minore. In particolare in Turchia si chiamano borek le preparazioni basate sulla yufka, disco di pasta sfoglia cotto in padella, ed esistono diverse versioni di borek o burek basati su strati di pasta sfoglia conditi con formaggio e burro, e cotti al forno, molto simili alla sfogliata finalese.

La stessa base, una pasta sfoglia a molti strati sottili, cotta al forno, accomuna cosí le tre religioni monoteiste, ma utilizzando un condimento diverso, seguendo i differenti precetti religiosi.