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Piatti a base di sfoglia



La sfoglia è il vero banco di prova della rezdora modenese: anche nelle interviste di Storie di terra e di rezdore, Elisabetta Battilani e Luciana Nora ricordano come le spose dovessero superare la prova della sfoglia, mentre la suocera, ma probabilmente anche il promesso sposo, interessato più ai movimenti della sua rezdora che al risultato finale, stavano lí a guardare. D'altra parte praticamente tutte le rezdore intervistate hanno raccontato di come hanno cominciato da bambine prima a guardare fare la sfoglia e poi a provare da sole, in piedi su un panchetto che consentiva loro di arrivare appena a poggiare le mani sulla spianatoia e magari le prime volte hanno fatto una sfoglia con dei buchi grandi cosí.

Quella della sfoglia è davvero una gestualità straordinaria, una vera e propria danza che comincia un po' in sordina con la fontana di farina, l'apertura delle uova. Amalgamare le uova alla farina: qui già le mani vanno veloci mentre il corpo appena si muove, quasi con noncuranza ed indolenza, fino a che le mani non aggrediscono l'impasto, il ritmo prende il sopravvento, e il glutine per formarsi pretende che le braccia, le spalle, le anche ed i glutei recitino fino in fondo la loro parte. Danza, il corpo, con leggerezza, spostando il peso ed il baricentro ora a destra ora a sinistra e l'impasto cresce, incorpora aria ad ogni menatura, acquisisce elasticità, plasticità, sericità.

Poi d'improvviso tutto si ferma: ora l'impasto, coperto, e la sfoglina devono riposare, ritrovare la loro forma, ricomporsi, prepararsi all'ultimo assalto.

Compare la cannella o mattarello, che spesso è stata ereditata dalla mamma, la pasta viene schiacciata, sotto le prime spinte, poi uno stop, la sfoglia viene ruotata di 90 gradi e ancora qualche spinta, poi movimenti di precisione, brevi, rapidi, per arrotondare i contorni con la punta della cannella. La sfoglia è cresciuta e un'estremità viene lasciata cadere fra la spianatoia e il corpo, che qualche volta la tiene stretta per rendere più produttivi i movimenti della cannella che la distendono, e avanti cosí, per più e più volte, finchè la sfoglia non avrà acquisito la sottigliezza e la forma voluta – quelli di Castelfranco Emilia dicono rotonda a Modena, oblunga a Bologna – e, dopo un ulteriore riposo, che le consenta di asciugare, sarà pronta per il taglio.

La sfoglia è fatta di farina di grano tenero e uova intere: un uovo ogni 100 grammi di farina.

Le uova sono necessarie perchè le farine di grano tenero, a differenza di quelle di grano duro, come si è spiegato nell'introduzione, hanno l'inconveniente di avere più amido ed un glutine debole: «nell'acqua non trattiene gli amidi che sfuggono offrendo una minor resistenza alla cottura. L'impasto ottenuto con la farina di grano tenero ed acqua tende a fare colla. Ecco quindi la necessità di ricorrere a proteine di origine animale con caratteristiche simili a quelle del glutine e che coagulino con il calore. Con l'aggiunta di uova nella pasta si ha un notevole avvicinamento alle caratteristiche del grano duro» (Ricette di sua maestà il raviolo, Slow Food Editore, 1993, p. 58).

Nella sfoglia è ovviamente importante sia la qualità delle uova che quella della farina, ma gli ingredienti e la tecnica di preparazione tendono un po' tutte ad assomigliarsi, come emerge sia dal filmato che dalle numerose testimonianze che vengono riportate.

Per la farina si deve usare il fior di farina, la doppio zero, ma anche questo è oggetto di varianti: qualcuno usa farine meno raffinate.

La ricetta più particolare è quella di Lidia Cristoni, che sta condividendo una ricerca sulla sfoglia insieme allo chef Massimo Bottura, che utilizza anche una percentuale di farina di grano duro ed alcune uova embrionali, le cosiddette ballotte, da cui il proverbio modenese «non si può avere l'uovo e la ballotta» che altro non è che una versione, piuttosto arguta, del classico «o l'uovo o la gallina», visto che per avere le uova embrionali la gallina bisogna evidentemente averla ammazzata.

Secondo la Cristoni sia l'uovo embrionale che la farina di grano duro conferiscono più forza all'impasto senza fargli perdere elasticità.

Tuttavia come alcuni ricordano, e tra questi la stessa Cristoni, in tempi di povertà occorreva limitare l'uso delle uova e si aggiungeva acqua all'impasto che risultava cosí piuttosto colloso.

Non tutti continuano a fare la sfoglia a mano ed usano l'impastatrice e la macchina per tirare la sfoglia, che magari viene più uniforme nello spessore e, tuttavia, la differenza si sente, la pasta risulta più liscia rispetto a quella tirata a mano e prende meno il sugo.

Con la sfoglia si possono tagliare vari tipi di pasta, alcuni da completare con il ripieno.

Senza ripieno le tagliatelle, i tagliolini, le pappardelle o tagliatelle larghe, le lasagne, le farfalle o strichetti, i maltagliati, i maccheroni al pettine, i quadretti. Col ripieno i tortellini ed i tortelloni.

Fra tutte, le lasagne sono le meno lavorate, come testimonia in particolare il racconto di Dina Rossi delle false lasagne, in pratica la sfoglia ancora avvolta nel mattarello che veniva buttata nell'acqua bollente. Landina Piacentini racconta invece un versione delle lasagne tipicamente montanara, con i funghi prugnoli.

Il piatto più rappresentativo a base di sfoglia restano i tortellini in brodo, il piatto delle feste ed in particolare del Natale, periodo nel quale si uccideva il maiale ed era disponibile la carne per il ripieno.

Da agognato piatto delle feste, il tortellino si è trasformato in piatto che ci si può permettere di preparare tutti i giorni ed è questa, per molte rezdore, la cartina di tornasole di una acquisita abbondanza rispetto alla povertà di allora.

Ma, come allora, il tortellino fatto in casa è diverso da famiglia a famiglia, per le dimensioni, che qualcuno, come Don Meliconi, ritiene debbano essere davvero molto piccole, tanto che di tortellini in un cucchiaio dovrebbero starcene almeno quindici, ed anche, soprattutto, per il ripieno.

L'associazione San Nicola di Castelfranco Emilia, che raccoglie un bel gruppo di rezdore dalla straordinaria manualità e che ogni anno, in occasione della Sagra ad inizio settembre promuove la rievocazione dell'invenzione del tortellino che sarebbe la creazione d'un oste di Castelfranco ispirato dalla vista dell'ombelico di una dama spiata dalla serratura mentre effettuava le sue abluzioni, ha depositato quella che ritiene la ricetta corretta del ripieno.

è la stessa che propone Ivonne Galli nel filmato e comprende due parti di lonza di maiale appena scottata, una parte di mortadella di Bologna, una di prosciutto di Modena, l'uovo, il Parmigiano-Reggiano stagionato, sale e noce moscata.

Quindi due diversi salumi, uno bolognese e l'altro modenese, e la carne appena scottata.

Nelle tante testimonianze di Storie di terra e di rezdore non potevano non emergere ricette alternative.

In particolare ci si divide su: chi usa il ripieno a crudo, chi lo scotta, chi, in particolare nel versante verso Reggio Emilia, lo cuoce a lungo; chi lo taglia al coltello e quindi più grossolanamente e chi lo passa anche due volte nel tritacarne; chi aggiunge al ripieno cosí come descritto anche il vitello, qualche volta in proporzione uguale al maiale; chi tende a sostituire la mortadella ed anche il prosciutto, che allora non c'erano, con il vitello o la salsiccia; chi aggiunge quello che c'era disponibile, non solo il vitello, anche un po' di manzo, o di petto di pollo o di tacchino, chi anche le frattaglie del pollo, un po' di pan grattato, altre spezie come cannella e chiodi di garofano. Qualcuno non ci mette le uova.

è questa varietà che fa del tortellino il vero piatto della memoria ed è un peccato volerlo omologare verso un'unica ricetta o soltanto verso gli ingredienti più ricchi.

La morte del tortellino è in brodo, brodo di cappone o di gallina e manzo, anche qui le divisioni sono notevoli, ma comunque brodo di carne e c'è chi, come Italo Pedroni, dell'Osteria di Rubbiara, considera un eretico chi li vorrebbe mangiare alla panna e si rifiuta di servirlo.

Eppure, ovviamente qualcuno li prepara diversamente, anche utilizzando la panna come Gina Piccinini che presenta i tortellini verdi alla boscaiola, un piatto imparato alla scuola professionale.

Una versione molto ricca che si rifà alla tradizione di gastronomia dolce-salata presente nella corte estense e nelle corti rinascimentali della pianura padana è quella del pasticcio di tortellini in crosta di pasta frolla dolce, che veniva proposto a Modena nel ristorante Fini ma anche in una trattoria come quella della Pesa, dove operava Pina Bonaccini.

Le dispute gastronomiche non si fermano certo al ripieno dei tortellini: proseguono per esempio su come fare il ragù per le tagliatelle.

Maria Ghirardini, della Trattoria Aldina di Modena, nel filmato, si affida esclusivamente al battuto di carote, sedano e cipolla, ad un macinato di manzo magro, vino bianco, conserva di pomodoro ed un lungo tempo di cottura al calore della piastra elettrica.

Elde Franchini e Lidia Cristoni usano invece un misto di maiale e manzo, Pina Bonaccini aggiunge anche il vitello, ma non mancano i ragù di sola salsiccia di maiale o soltanto di pollo, con tutti gli scarti, o di maiale e pancetta come quello di Remo Rinaldi.

Le tagliatelle non venivano condite soltanto al ragù di carne: spesso venivano utilizzate le verdure, soprattutto nei giorni di magro, come nella ricetta delle tagliatelle ai carciofi raccontata da Mirella Fiandri, due volte sorprendente sia perchè ricorda come si coltivassero i carciofi nelle colline sopra Fiorano Modenese, sia perchè era il piatto tipico pasquale. Sergio Coa ricorda le tagliatelle al prosciutto e piselli: Mirella Fiandri invece accosta i piselli alla pancetta per condire gli strichetti.

In generale alcuni sughi si adattano bene a più tagli di pasta sfoglia, come nel caso del ragù di pollo o di galletto, certo utilizzabile anche per le tagliatelle.

Quasi sempre invece i maltagliati finiscono nel brodo di fagioli.

I fagioli sono il legume in assoluto più utilizzato nella cucina modenese (seguono i piselli), in diverse qualità. Ma per la pasta e fagioli di solito si usano i borlotti e i denti di vecchia.

D'estate si usavano i fagioli freschi, nelle altre stagioni quelli secchi fatti rinvenire: il brodo veniva insaporito dal classico battuto di lardo o pancetta e cipolla, con aggiunta di un po' di salsa di pomodoro. Qualcuno metteva nel brodo anche qualche patata, in molti le croste ripulite del Parmigiano-Reggiano. Milena Bononcini che presenta la ricetta nel filmato ricorda che la mamma, allo stesso modo, faceva una minestra di sole patate.

In effetti il brodo nelle due varianti di brodo di carne o di brodo di verdure era un piatto molto diffuso in tutte le famiglie, quasi quotidianamente.

In brodo si facevano le tagliatelline, i quadretti, e spesso venivano aggiunti i fegatini di pollo oppure la cùnza o terdura, cioè l'uovo ed il parmigiano come la ricetta presentata nel filmato; nello stesso modo venivano fatti i grattini o pasta rasa che pure veniva utilizzata, come dimostrano più testimonianze, da cuocere nel brodo di fagioli.

I maccheroni al pettine al ragù di pollo sono indubbiamente un piatto con una forte concentrazione territoriale nell'area a Nord di Modena fra Mirandola e Finale Emilia. Sergio Coa, con un certo orgoglio, racconta che l'utilizzo del pettine per tessere la canapa per ottenere dei solchi uniformi sul fazzoletto di pasta, che poi viene ripiegato a formare il maccherone, venne inventato lí a beneficio del grande Pico della Mirandola. Certamente si tratta di una tecnica ingegnosa che consente a quel taglio di pasta di assorbire molto bene il sugo. Sempre Coa racconta più modi di preparare il sugo ma è indubbio che quello più diffuso è proprio il ragù di galletto o di pollo, che altro non è che un umido con il solito soffritto e l'aggiunta del pomodoro, non troppo dissimile dal pollo alla cacciatora preparato da Liliana Magri, se non perchè i pezzi di carne nel ragù debbono essere molto più piccoli e non si aggiunge l'aceto.

Un taglio di pasta con caratteristiche simile è lo strichetto: anche in questo caso la piegatura al centro per formare la farfallina consente di accrescere la capacità di trattenere il sugo, rendendone possibile l'utilizzo con successo con numerosi condimenti. Il racconto del piatto nel filmato da parte di Mirella Fiandri è una grande lezione di autarchia contadina.

I tortelloni di ricotta sfruttavano la disponibilità di ricotta che c'era quando si faceva il formaggio in casa, di solito d'inverno, e tra chi aveva le pecore che allora erano molto più diffuse, soprattutto in Appennino.

Un po' tutte le testimonianze concordano sul fatto che la sfoglia per i tortelloni vada tenuta un po' più spessa: sul ripieno, come al solito ci si divide. La ricetta più povera è quella di un ripieno di sola ricotta e prezzemolo, ma è assolutamente molto diffuso sia l'uso delle bietole che degli spinaci oltre che di erbe spontanee come le ortiche, il rames o le foglie di primule.

Quanto al condimento, se oggi si è imposto il classico burro e salvia, un tempo probabilmente prevaleva il battuto di lardo o pancetta descritto da Dina Rossi.

Se i tortelloni di ricotta erano un piatto diffuso un po' in tutta la provincia ma con una certa concentrazione nell'Appennino, dove certo era più disponibile la ricotta di pecora, i tortelloni di zucca sono un piatto più diffuso in pianura, sia verso Reggio Emilia che verso Mantova e Ferrara, un altro piatto tipico della cucina dolce-salata.

Anche in questo caso le distinzioni sono date dalla qualità della zucca utilizzata – la migliore, secondo la testimonianza di Giorgio Boccaleoni è la cappello da prete – dal ripieno, più o meno dolce, e dal condimento che spazia dal burro e salvia, al ragù di pancetta, al ragù di carne.

Entrambe le ricette presentate sono della Bassa ed hanno lo stesso ripieno, senza amaretto, col parmigiano ed un po' di pan grattato, se necessario per dare la giusta consistenza, sale, pepe e noce moscata. Vengono proposti sia col burro e salvia, da Ermellina Vincenzi, che col ragù di maiale e vitello da Maria Pia Gavioli.

L'ultima ricetta è quella dei turtei sguazarot, tipica ricetta mantovana, preparata nelle terre di confine, con il ripieno a base di savòr, ma un savòr della bassa con zucca e barbabietole insieme alla frutta, condito con un ragù di fagioli.