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I prodotti dell'agricoltura

di Antonio Cherchi
Fiduciario Slow Food della Condotta di Modena



Vediamo ora di analizzare più approfonditamente quali erano i prodotti dell'agricoltura ed il loro ruolo nella cucina modenese.


il grano tenero

La farina di grano tenero è certamente l'ingrediente fondamentale della cucina modenese: dal pane, alla pasta, alle torte, sono innumerevoli i modi in cui viene utilizzata.

Il chicco di grano è mediamente composto per il 13% da acqua, il 12% da proteine, il 71% da carboidrati ed il 2% da grassi.

La matrice proteica è fondamentale perchè mescolata in acqua forma una struttura complessa e semisolida chiamata glutine, allo stesso tempo plastica ed elastica, che permette sia l'azione dei lieviti nella lievitazione del pane che di ottenere un impasto liscio ed omogeneo per la pasta, grazie al fatto che durante l'impasto le lunghe molecole di glutine prima disposte disordinatamente si distendono e si orientano nella stessa direzione, pur mantenendo l'elasticità che consente all'impasto di ritornare alla forma originaria dopo ogni distensione.

L'azione dell'impastare migliora l'aerazione della pasta e aiuta il glutine a svilupparsi.

Ci sono molte varietà di grano ma la principale distinzione è quella fra frumenti duri e frumenti teneri, classificati in base alla resistenza meccanica offerta dalla cariosside in sede di macinazione, che è superiore nei frumenti duri perchè contengono granuli di amido più piccoli ed in quantità minori e, di conseguenza, la matrice proteica è più continua e quindi più robusta ed i chicchi si spezzano in frammenti di proteina a grana grossolana, chiamata semola, con un contenuto relativamente basso di amido libero.

Tenuto conto di un contenuto d'acqua del 12%, nella farina di grano duro le proteine possono superare il 12% mentre in quelle tenere stare sotto al 10%.

La farina o semola di grano duro è più adatta a lavorazioni più intense come quella della pasta, ed in effetti quasi tutta la pasta secca è fatta con la farina di grano duro.

Le farine di grano tenero, più ricche in amidi, sono adatte a lavorazioni più moderate, come per il pane, le focacce, i dolci: soltanto aggiungendo le uova, e quindi proteine che coagulano in cottura, si riesce ad ottenere un buon risultato per la pasta fresca.

La ragione per cui in Emilia sia prevalsa la produzione del grano tenero rispetto a quello duro è probabilmente dovuta ad aspetti climatici, perchè è stato tradizionalmente coltivato in regioni dal clima temperato freddo o freddo ed umido, rispetto al grano duro, coltivato in regioni dal clima temperato caldo e caldo ed arido.

Nelle interviste di Storie di terra e di rezdore sono contenute preziose informazioni relative all'intero processo di produzione della farina di grano, nelle diverse aree geografiche ed alla sua evoluzione nel tempo.

Esse documentano il passaggio a diverse qualità di grano tenero, dagli anni venti in avanti, offrendo un'immediata percezione dell'importanza della biodiversità e della selezione genetica, nonchè delle differenze territoriali (nell'alto Appennino era diffuso il marzuolo che era un grano che si seminava in marzo, quando andava via la neve, con un ciclo di coltivazione molto più rapido). Dietro questi passaggi da una varietà all'altra, c'è stata la ricerca di rese superiori (si è passati dai 10-15 quintali per ettaro coltivato ai 70 attuali) ma anche di qualità che crescevano meno, meno soggette ad essere allettate dal vento e dai temporali e perciò più adatte alla mietitura meccanizzata. Se si parla di qualità, emerge una convergenza di opinioni fra gli intervistati, sul fatto che le migliori, per la farina e quindi per il pane e per la pasta, fossero le vecchie specie, l'Ardito, il Virgilio, il Mentana, il Damiano, il Todoro 96, il Marzotto, specie molto lontane dalle attuali produzioni, che qualcuno ha conservato ed è ritornato a coltivare.

Come si è detto, per conservare la fertilità del terreno, il grano doveva essere coltivato in rotazione con le leguminose.

Il punto d'approdo dell'agricoltura modenese è stato quello di alternare come leguminosa l'erba medica, utilizzata come foraggio per i bovini allevati in stabulazione fissa (l'erba medica non può essere brucata).

I legumi hanno perciò perso l'importanza che potevano avere originariamente come coltura di campo, la loro presenza si è ridotta all'orto, e perciò all'autoconsumo dove comunque hanno continuato ad esercitare un ruolo importante, ed il frumento è diventato per gli abitanti della provincia di Modena, il principale alimento coltivato in campo, anche se, storicamente, in particolare nelle parti più alte dell'Appennino, tale ruolo è stato svolto da un altro cereale, la segale (che cresce anche a temperature più basse e per questo si è affermato soprattutto nel nord Europa), se non, come si vedrà, dalla castagna.

Alla coltivazione del grano sono legate attività che un tempo venivano svolte solo con l'aiuto degli animali: l'aratura, la semina, la mietitura, la trebbiatura.

La lavorazione nelle aziende contadine finiva con la trebbiatura: per la macinazione si andava ai mulini, che in Appennino rimasero quelli ad acqua con le macine di pietra, di cui permangono numerosi esempi ancora funzionanti, ed i mugnai venivano pagati lasciando una percentuale della farina, di solito il 5%.

Le farine si dividono in categorie in base al loro grado di raffinazione: la farina bianca o fior di farina, la cui sigla è 00, è più raffinata della 0 e dell'integrale. Ovviamente un tempo queste distinzioni non esistevano e la diversa raffinazione veniva ottenuta setacciando la farina in casa.

La farina di grano tenero veniva conservata nella madia o panera, ed era utilizzata quotidianamente.


la castagna

L'importanza della castagna ed in particolare della farina di castagne per l'alimentazione e la sopravvivenza della popolazione della montagna, è testimoniata in decine di interviste di Storie di terra e di rezdore .

La coltivazione delle castagne, come quella di molti altri alberi da frutto, si affermò abbastanza tardi rispetto all'inizio dell'agricoltura perchè richiede l'utilizzo della tecnica dell'innesto della varietà che si vuole riprodurre sulla pianta selvatica, una tecnica piuttosto complessa.

Per secoli, sono state coltivate molte varietà di castagne, soprattutto quelle che si sono rivelate più adatte per essere trasformate in farina, dalla pastonese, alla carrarese, alla bianchina, alla rossina, alla zarucca.

Di fatto, oggi si coltivano soprattutto i marroni e sono stati praticamente abbandonati i castagneti delle cultivar da farina, salvo rare eccezioni, con persone che sono ritornate a tener puliti, a nettare i castagneti, facendo le roste, piccoli solchi che fermano le castagne che cadono, ed hanno rimesso in uso i metati, cioè gli essiccatoi dove venivano portate le castagne per essere seccate, poi pulite e portate al mulino per la macinazione.

Un tempo c'erano centinaia di metati, si può dire che quasi ogni casa o piccolo borgo l'avesse, ed è ancora vivido il ricordo in molti intervistati di tutte le operazioni della raccolta – si usavano dei contenitori di legno, i bigonci, per ogni tre bigonci di prodotto fresco se ne otteneva uno di secco – dell'essiccazione – durava più settimane, bisognava tenere vivo il fuoco giorno e notte, l'operazione più difficile era quella della voltatura per rendere uniforme l'essiccazione delle castagne – della pelatura – ancora a mano con un bastone speciale, il graffio, con cui si pestavano le castagne nei bigonci e poi con la vassora per eliminare le bucce, ma alcuni ricordano le prime macchine inventate per meccanizzare questo faticoso passaggio.

Durante l'ultima guerra, la castagna non fu soggetta all'ammasso ed il suo ruolo per l'alimentazione venne amplificato. Ma non solo, la castagna diventò la principale fonte di commercio con la Toscana: Delio Albicini ricorda che si scambiavano dieci chili di farina di castagne per uno di sale.

Nel dopoguerra, l'abbandono dei castagneti a seguito dell'immigrazione, l'ampia disponibilità della farina di grano tenero, hanno reso marginale il ruolo della castagna nell'alimentazione.

La farina di castagne durava da un anno all'altro, conservata nei cassoni che avevano almeno due scomparti (per la farina di castagna e per quella di grano) se non tre (per la farina di mais) ed aveva dato luogo ad una cucina in cui ricopriva il ruolo di ingrediente principale e d'uso quotidiano, in alternativa al grano tenero o alla segale.

Ciò deriva dal fatto che la castagna contiene circa il 52% di acqua, il 42% di carboidrati (è seconda solo alla ghianda che ne contiene il 68%), il 3% di proteine ed il 2% di grassi: per il contenuto d'acqua è alquanto deperibile, per questo viene essiccata, raggiungendo un contenuto percentuale di carboidrati paragonabile a quello dei cereali.

La farina di castagna, pur caratterizzata da un sapore di fondo dolce (una dolcezza che assumeva molte sfumature nelle diverse cultivar, ma che in quelle da farina non raggiungeva quella dei marroni a cui siamo oggi abituati e che tendiamo ad identificare con il sapore della castagna), era molto duttile a si prestava a svariate preparazioni: dai pani (le mistocche, i ciacci), alle minestre, ai dolci (frittelle, torte, castagnaccio), fino alla polenta di cui c'erano due versioni principali, una più morbida per la colazione del mattino ed una più consistente per il pasto principale.


il mais

Il mais o granturco è oggi la seconda produzione cerealicola della Provincia di Modena, sviluppata soprattutto in pianura, ed anche in questo caso, come in quello del grano, dal dopoguerra in avanti si è passati da vecchie cultivar, descritte nelle interviste di Storie di terra e di rezdore, come ad esempio, Plata, Scagliolo, Quarantino, Cinquantino, Ottofile, a bassa produttività – allora si facevano 15 quintali la biolca – ad ibridi molto più produttivi ma di qualità inferiore.

Al mais è legato uno dei riti serali più diffusi, quello della spannocchiatura nella stalla ma, sotto il profilo gastronomico, come nel resto d'Italia, anche nel modenese il mais è sempre stato utilizzato soprattutto in forma di farina, per fare la polenta.

Come si sa, l'eccesso di un'alimentazione basata quasi esclusivamente sulla polenta di mais provocò il diffondersi della pellagra fra i mezzadri dalla fine del ‘700, che si manifestò anche in Provincia di Modena, anche se non con la medesima intensità di altre zone.

Tale malattia è dovuta alla carenza di niacina (vitamina pp) che nel mais è legata con un'altra molecola e non può essere assimilata dal corpo umano se non in minima parte e non si manifestava nelle popolazioni americane la cui alimentazione era basata sul mais, perchè queste avevano sviluppato l'abitudine di sottoporre la farina di mais ad un trattamento alcalino (consistente nella bollitura con cenere), che rende disponibile la niacina.

Si può perciò affermare che la pellagra si sviluppò perchè quando si importò il mais dall'America non si importò questa tecnica d'utilizzo: il mais venne accettato in cucina come sostituto di altri cereali, come il farro o il grano saraceno, o la stessa farina di castagna, nella preparazione della polenta.

La tradizione americana è particolarmente illuminante su come il sapere contadino sia riuscito, in un lungo processo evolutivo, ad individuare straordinarie soluzioni al problema di fare allo stesso tempo un cibo buono e salutare: il trattamento alcalino infatti non solo rende disponibile la niacina ma aumenta anche la disponibilità relativa della lisina e del triptofano, aminoacidi essenziali di cui pure il mais è carente. Inoltre vi era l'abitudine di consumare il mais insieme ai fagioli, che spesso venivano coltivati in associazione con esso, ben forniti di lisina, triptofano e niacina: un'abitudine questa, presto assunta anche in Italia ed a Modena, se solo si pensa alle tante varianti della polenta coi fagioli.


il riso

Se mais e fagioli arrivarono dall'America, il riso è il cereale più importante della tradizione alimentare asiatica.

Necessitando di climi caldi o temperati, senza eccessivi sbalzi termici e di terreni molto umidi ed allagati, in Italia si diffuse soprattutto nella Pianura Padana dal Quattrocento in avanti, in particolare nel triangolo Vercelli, Novara, Pavia, dove nacque anche l'utilizzo gastronomico tipico italiano del risotto.

Per le rezdore modenesi, alle risaie è legata l'esperienza del lavoro stagionale delle mondine in Piemonte, un fenomeno che ha coinvolto migliaia di donne, che spesso ritornavano a casa portando come integrazione della paga il riso.

Di qui il diffondersi dell'uso del riso in cucina, sia con la tecnica del risotto, che bollito, che come ingrediente della torta di riso.

Ma non bisogna dimenticare anche la produzione nella zona di Carpi, sviluppatasi dalla metà del Settecento in avanti, nelle terre basse e paludose bonificate, fra Migliarina, Fossoli e Budrione, che perdura tuttora.

Il riso è classificato in base alla dimensione ed alla forma del chicco, dai grani più piccoli e tondi, i meno pregiati (riso comune o originario), a quelli più lunghi e affusolati (semifino, fino, superfino. Tra queste ultime vi sono alcune delle varietà più diffuse come l'Arborio, il Baldo, il Roma).

Le due varietà migliori da risotto sono ritenute il Vialone Nano (semifino) ed il Carnaroli (superfino), i cui chicchi presentano internamente una perla (una macchia opaca) particolarmente estesa, attraverso cui il riso assorbe i condimenti e gli aromi.


la patata

La patata fa parte degli ortaggi da tubero, in quanto è questa la parte che si mangia. Il tubero non è la radice, ma un rigonfiamento all'apice dello stelo sotterraneo, lo stolone, da cui partono le radici.

La patata è un altro prodotto proveniente dal Centro-sud America, dove veniva coltivata fino a 4.500 metri di altitudine, là dove il mais non poteva crescere e rappresentò l'alimento base per gli Incas (Harold McGee, Il cibo e la cucina, Franco Muzzio Editore, 1989, pp. 218-219).

La patata contiene meno proteine rispetto ai cereali e al riso, ed invece una maggior quantità di amido, oltre a fornire un buon apporto di vitamina C: è molto resistente, è più facile da coltivare e da raccogliere dei cereali, rispetto a cui produce più energia per unità di superficie coltivata (McGee, cit.).

In Europa, proprio per queste caratteristiche, una volta superate molte resistenze al suo utilizzo, si diffuse rapidamente nel Seicento, soprattutto nel Nord, arrivando a divenire la fonte alimentare principale in Irlanda dove nell'800, a seguito di una carestia dovuta ad un parassita, morirono più d'un milione di persone e si verificò un'emigrazione in massa verso gli Stati Uniti (fu cosí che vi si diffuse la produzione di patate, al seguito degli irlandesi).

Nel modenese è stata sempre uno degli elementi presenti nell'orto, per autoconsumo, ed è divenuta un prodotto da campo piuttosto importante soprattutto in Appennino, in particolare nella zona di Montese: in una significativa intervista per Storie di terra e di rezdore Roberto Marchetti si dilunga a raccontare la grande biodiversità intorno alla patata, ricordando le diverse cultivar, la Bintje olandese, Majestic estone, la Tonda di Berlino. Racconta l'evoluzione del rapporto fra piantato e raccolto, allora 1 a 20, oggi 1 a 25-30: la patata è una coltura da rinnovo che si moltiplica per tuberi interi o tagliati a pezzi, che contengano almeno una gemma; la messa a dimora si effettua da marzo ad aprile, mentre la raccolta da agosto ad ottobre.

Inoltre ci sono cultivar precoci (le novelle) e tardive.

Le patate possono essere conservate abbastanza a lungo al buio ed al freddo: alla luce sviluppano macchie verdi più o meno scure che contengono un alcaloide tossico, la solanina, che si concentra anche nei germogli e nei cosiddetti ‘occhi' (i punti di innesto dei germogli), parti che pertanto vanno eliminate con cura, se presenti.

Dal punto di vista culinario, le patate si distinguono soprattutto in qualità a pasta compatta o da fetta (adatte per essere fritte, fatte arrosto, lessate) e qualità a pasta farinosa, adatte per gnocchi e purè.

Harold McGee (ibidem, p. 219) suggerisce un curioso artificio a chi non sa quale qualità di patate ha in casa: «prendetene una e mettetela in una salamoia fatta con una parte di sale e undici parti di acqua. Le patate cerose galleggiano, quelle farinose sono più dense e vanno a fondo».

Nelle interviste di Storie di terra e di rezdore ci sono interessanti testimonianze su alcuni usi oggi non più consueti della patata in cucina, in particolare sulla torta di patate, diffusa nella parte ovest dell'Appennino, dove anche nel pane, come ricorda Landina Piacentini di Frassinoro, si aggiungevano sempre un po' di patate perchè l'impasto si mantenesse più morbido. Delio Albicini ricorda che durante la guerra c'erano i controlli sul grano (l'ammasso) ma non su patate e castagne. Anche Don Galli ricorda l'importanza della patata, che non era controllata, e Dina Rossi di Montese che veniva sempre aggiunta alla farina per fare il pane.


i bovini

L'allevamento dei bovini raccontato nelle interviste di Storie di terra e di rezdore è molto diverso tra la pianura e la montagna.

In pianura era presente soprattutto la vacca bianca modenese-valpadana, una razza autoctona, le cui origini si perdono nella notte dei tempi e la cui principale caratteristica era di essere il miglior animale generalista, selezionata perchè era la migliore per tutti gli usi presi nel loro insieme. Tant'è che la sua sostituzione, soprattutto dal dopoguerra in avanti, con la razza frisona olandese, bianca e nera, la razza lattifera per eccellenza, fu dovuta sia alla meccanizzazione dell'agricoltura che limitò alla sola produzione di latte l'uso della bianca che alla circostanza che produceva meno latte. Giovanni Sghedoni ricorda anche come avvenne questa sostituzione, incrociando inizialmente il maschio olandese con la vacca modenese.

Per Siro Tassi, che non ha mai abbandonato del tutto la bianca, come molti altri allevatori che sono cosí diventati i custodi di questa razza, la bianca è meglio della frisona perchè vive più a lungo e figlia sempre, perchè è più buona la carne ed è più buono il latte, ha tutto un altro sapore, un altro odore. Marino Mongiorgi arriva a sostenere che la carne di bianca è superiore a quella della razza romagnola.

Una convinzione corroborata anche da una fonte meno sospetta: Paolo Monelli, in una tappa a Montecatini del suo Ghiottone errante edito nel 1935 ricorda che «fra piramidi di fiaschi e monti di formaggi reggiani e pesche incarnate di Pescia e fagioli di Sorana e patate della Serra, il capocuoco distende sul pancone un vitellino da latte e si mette a sezionarlo, e mi fa notare come splende quieta e ferma la carne: vitellino modenese, dice il capocuoco, e creda a me, ho girato il mondo in lungo e in largo, ma carne come questa non ne ho mai veduta».

In realtà dei diversi usi, quello da carne, era il meno frequente: si destinavano alla macellazione i vitelli difettosi che non si potevano allevare, le vacche a fine carriera, i buoi cresciuti e quelli comprati per il lavoro d'estate e rivenduti ingrassati.

Ma era raro che le loro carni finissero sulla tavola dei contadini, se non i tagli meno pregiati, da lesso, da macinato, per fare il brodo ed il ragù e tutte le interiora, il cosiddetto quinto quarto.

Molto più importante era il latte che veniva destinato alla produzione del Parmigiano-Reggiano, a lungo in provincia di Modena esclusivamente prodotto con il latte della bianca, particolarmente vocato alla caseificazione.

Le nascite venivano regolate fra dicembre e marzo in modo che i caselli restavano aperti da aprile a novembre. Per il Parmigiano-Reggiano veniva utilizzato il latte scremato della sera precedente mescolato con il latte del mattino. Con la panna della scrematura si produceva il burro, dal siero residuato dalla lavorazione si produceva la ricotta e lo scarto veniva dato da mangiare ai maiali. Nel periodo invernale, se c'era ancora latte veniva utilizzato nelle case dei contadini per produrre formaggette, burro e ricotta in casa.


le pecore

L'allevamento delle pecore era il più diffuso nell'Appennino modenese fino alla fine della seconda guerra mondiale. Si trattava di una pastorizia transumante, dai crinali appenninici verso la pianura. Come ricorda Livio Migliori, in una delle interviste di Storia di terre e di rezdore, nel periodo estense tradizionalmente si andava verso la Maremma, dopo l'Unità d'Italia verso Ferrara. Domenico Albinelli racconta le sue transumanze a piedi verso Ferrara, interrotte nei primi anni '50, informazione confermata da Ennio Ferrari. Tullio Turelli racconta il suo percorso di transumanza da Piandelagotti, via Cargedolo, Ponte Dolo, Roteglia, Sassuolo, Albareto, fino a Ferrara e ricorda che dovunque erano ospitati, cenavano con gnocco fritto e lambrusco e lasciavano il formaggio in cambio.

Ovviamente c'era anche fra le pecore una grande biodiversità ed un tempo venivano preferite razze autoctone come la garfagnina, oggi scomparsa, e la cornella bianca, di cui sono rimasti pochissimi esemplari, poi soppiantate da razze più produttive come la massese o la sarda.

Le pecore venivano usate da latte, da lana e meno da carne, tant'è che non sono rimaste grandi tracce di tradizioni culinarie, come invece in altre zone d'Italia, anche se la moglie di Ennio Ferrari ricorda che l'agnello si cucinava in umido, arrosto o fritto e c'era l'uso di conservare la carne di pecora salandola, testimonianza raccolta a San Michele dei Mucchietti, sopra Sassuolo.

Più importante la gastronomia legata alla trasformazione del latte, che rispetto a quello vaccino contiene più proteine e più grassi, che dava formaggi e ricotta: un tempo, prima che si diffondessero i caselli del Parmigiano-Reggiano, per fare i tortelli di ricotta – il piatto più diffuso con questo ingrediente – in Appennino utilizzavano soprattutto la ricotta di pecora.


il maiale

Come si è ricordato, l'allevamento intensivo dei maiali veniva fatto nelle porcilaie accanto ai caseifici, dove i maiali venivano nutriti soprattutto con il siero, cioè lo scarto di lavorazione del formaggio. I maiali venivano venduti al mercato agli ingrassatori o direttamente agli artigiani che lavoravano le carni e producevano salumi.

I contadini invece allevavano uno, due maiali per le esigenze della propria famiglia, qualche volta uno da vendere e l'uccisione e la macellazione del maiale – la pcaria, come si dice in dialetto – rappresentava uno degli eventi più importanti dell'anno.

Ai maiali si dava di tutto, gli avanzi del cibo di casa, la scolatura delle stoviglie, ma anche granoturco, orzo e, in autunno, la ghianda, intera o macinata al mulino.

Tutti concordano che l'animale doveva diventare molto grasso e che più alto era il lardo e meglio era, perchè i contadini avevano soprattutto bisogno del lardo per il condimento e dello strutto per friggere: in una zona in cui l'ulivo era sparito ed il burro piuttosto prezioso, il maiale era la principale fonte di grassi.

Fino a che il maiale è stato allevato in casa si cercavano razze con un alto rapporto fra lardo e carne; dopo, la selezione genetica richiesta dal mercato delle carni e dai salumieri ha portato ad un contenimento di tale rapporto: secondo Giovanni Sghedoni gli ibridi di adesso di due quintali hanno un lardino alto cosí; prima, a parità di peso, era molto più alto.

Spesso per ammazzare il maiale le famiglie erano aiutate dai pcar, i norcini che avevano i coltelli e le attrezzature per tagliare il maiale e preparare gli insaccati.

Di norma dal maiale si ricavavano: il lardo sotto sale, i salami, la salsiccia, i cotechini, lo zampone, il prosciutto, la pancetta distesa ed arrotolata, la coppa, i ciccioli, la coppa di testa ma, in Appennino, come ricorda Giorgio Gherardini, anche la spalla arrotolata, le costolette salate e messe sotto aceto o in pianura, come ricordano Bebo Ansaloni e Marta Panari, la salsiccia matta con polmone e lingua. All'aperto venivano accesi due fuochi per i paioli di rame: in uno cuocevano testa ed ossa per la coppa di testa, nell'altro tutto il grasso residuo per ottenere i ciccioli (in montagna pressati, in pianura anche frolli) e lo strutto. Il sangue veniva utilizzato subito per fare le frittelle, reni e polmone per condire il risotto, il fegato veniva cotto nella rete.


gli animali da cortile

Tutti i contadini raccontano che tenevano animali da cortile: galli e galline, faraone, tacchini, conigli, anitre, oche. Qualcuno ricorda anche le diverse razze: fra le galline, oltre alla padovana ed alla livornese, c'era una razza modenese che deriverebbe presumibilmente da incroci tra quelle due, detta anche Fulva di Modena, in ragione del suo colore predominante.

Molti avevano le piccionaie ed usavano i piccioni anche per condire i maccheroni al torchio come racconta Maria Beneventi di Acquaria. Disma Piccinini parla delle diverse specie di colombi, in particolare dei triganini e dei sottobanca, i primi utilizzati per le gare di volo acrobatico – famose quelle dalle altane di Modena – i secondi, più grassi, solo da mangiare.

Gli animali da cortile non erano fuori dal contratto di mezzadria, perchè allevati con risorse del fondo: era previsto che i mezzadri facessero le onoranze, dettagliatamente previste nelle consistenze e nella qualità nel contratto.

Gli animali da cortile davano uova, grasso (le oche) e, soprattutto, erano la principale fonte di carne, che ovviamente veniva macellata in loco.

Cosí i ragazzi fin da piccoli imparavano a tirare il collo alle galline ed a spennarle o a scuoiare i conigli, cosí come succedeva con la selvaggina cacciata che era sottoposta ad ulteriori lavorazioni come la frollatura o la marinatura per ammorbidirne le carni e levare il gusto eccessivo di selvatico.

Altre carni di animali di taglia più grossa che avevano un certo utilizzo, erano quelle del cavallo e del somaro.

Infine, una notazione per l'apicoltura e la produzione di miele che era particolarmente diffusa nell'appennino.


la cacciagione

La caccia era una fonte importante di diversificazione verso carni di qualità diverse, che consentiva di rompere la monotonia alimentare.

Nella ricerca ne parla soprattutto Giorgio Gherardini che ricorda la caccia con i cani da ferma, alle lepri, alle starne e in autunno alle beccacce e ai colombacci; la caccia con le trappole e i lacci, ancora alla lepre, ai tordi, alla volpe: allora non c'erano nè i cinghiali nè i fagiani che oggi imperversano nel medio Appennino. Stesso racconto lo fanno, più o meno, i Seghi di Ospitale: allora, niente fagiani e cinghiali, solo lepri e colombacci. E volpi prese coi lacci, con cui andavano a farsi dare le uova dai contadini, sostenendo che era la volpe che attaccava i pollai. Anche Sante Mucci ricorda le lepri e le pernici.


il pescato

Non si deve credere che il pesce non abbia costituito una importante fonte alimentare per i contadini modenesi. Anzi, il contrario, se non altro per i precetti religiosi che, imponendo il mangiare di magro, stimolavano la pesca ed il commercio del pesce.

Danilo Bertani, che ha scritto delle autobiografiche Memorie di un pescatore della Sacca, cita una ricerca di P. L. Cavazzuti La pesca in provincia di Modena negli Annali dell'Istituto Zootecnico di Modena anni 1931-1932 secondo cui nel 1929 «le specie esistenti nelle acque modenesi erano le seguenti: trota, carpa, tinca, anguilla, orata, cavedano, gobbio, luccio, orologio, pesce persico, pesce gatto, cheppie, gamberi di fiume e molte altre varietà di pesci di piccola taglia».

In effetti, fra gli intervistati di Storie di terra e di rezdore, Augusto Malaguti racconta la pesca delle rane, di anguille, pesci gatti, carpe, tinche, cavedani, gamberi di fiume e ricorda che dentro il Panaro c'era un'acqua speciale. Ma anche Germano Serafini afferma che a Recovato si pescavano le anguille nel canale, le rane, il luccio, la carpa.

In montagna, Remo Andreoni ricorda le rane al lago di Pasquino, e le tinche al lago Pratignano, queste ultime le prendevano anche i Seghi, facendo un foro nel ghiaccio e tirandole su con le mani. Nella Ricci racconta la pesca delle trote a Pievepelago ed una ricetta specifica del luogo, la trota con le bietole.


l'orto

Una straordinaria e quasi illimitata fonte di integrazione e diversificazione dell'alimentazione basata sulla farina di grano tenero era data dai prodotti dell'orto, che tutti i contadini avevano.

Si tratta di uno dei saper fare più rilevanti che doveva consentire di avere il più ampio numero di prodotti a disposizione per il più ampio periodo di tempo, il che comportava una conoscenza delle diverse piante e delle differenti specie di ciascuna pianta, da quelle precoci a quelle tardive, e delle condizioni ottimali per seminarle, governarle, raccoglierle, conservarle.

Secondo Il grande libro degli alimenti (Touring Club Italiano, 2007, p. 18) «un modo semplice di classificare gli ortaggi consiste nel raggrupparli a seconda della parte che si consuma», un'operazione che consente di descrivere sinteticamente le principali coltivazioni degli orti modenesi, cosí come sono state citate nelle interviste:

- ortaggi da bulbo: aglio, cipolla, cipollotti, porri;
- ortaggi da radice: barbabietola, carota, rapa;
- ortaggi da frutto:melanzana, zucca, zucchina, peperone, pomodoro, cetriolo;
- ortaggi da foglia: spinacio, lattuga, radicchio, cicoria, cavoli;
- ortaggi da stelo: bietola, asparago, finocchio, sedano;
- ortaggi da tubero: patata;
- ortaggi da fiore: carciofo, cavolfiore.

Altrettanto importante era la coltivazione delle leguminose, dalle diverse qualità di fagioli ai fagiolini, ai piselli, alle lenticchie, e delle erbe aromatiche: alloro, basilico, salvia, timo, prezzemolo, rosmarino, menta, rafano, erba luigia, e cosí via.

Merita di essere sottolineato come la coltivazione dell'orto sia una pratica millenaria, che forse è stata intrapresa prima dello sviluppo della stessa agricoltura, e come l'orto sia sempre stato un luogo di sperimentazione di nuove possibili colture o di selezione di specie.

Sotto questo profilo, il più grande cambiamento è certamente stato rappresentato dall'introduzione negli orti, fra il xvi ed il xvii secolo, di tutte le principali piante importate dall'America , che in provincia di Modena avrebbero conosciuto una grande fortuna in cucina, diventando ingredienti indispensabili di tanti piatti della tradizione: pomodoro, patate, fagioli, mais, zucche e zucchine, peperoni.


la frutta

Come per l'orto, un po' tutti avevano alberi da frutta e questi frutteti erano una vera miniera di biodiversità: le specie erano scelte per cercare di allungare il più possibile il periodo di disponibilità della frutta, quelle precoci, quelle che maturavano in stagione, le tardive, quelle più facili da conservare anche dopo la raccolta.

I testi delle interviste sono un piccolo giacimento di specie, molte perdute o quasi, di uva, fragole, mele, pere, pesche, albicocche, prugne, ciliegie, nespole, fichi, cocomeri, meloni, cachi, noci, nocciole, mandorle.

In particolare l'uva era una materia prima fondamentale nella gastronomia modenese, non solo per il vino (i vari lambruschi, il trebbiano, l'uva d'oro, la tosca, per citare i vitigni più noti) ma anche per il mosto cotto e i suoi derivati, i sughi d'uva, la saba, il savòr e, soprattutto, l'aceto balsamico tradizionale.

Tutti i contadini avevano l'uva e facevano il vino in casa, producendo vini frizzanti con la tecnica della rifermentazione naturale in bottiglia. I contadini avevano l'aceto di vino; come racconta Giovanni Sghedoni avevano una damigiana bella larga e ci mettevano dentro tutti gli avanzi. L'aceto balsamico tradizionale era invece appannaggio delle famiglie dei grandi proprietari, ma le batterie erano governate dai contadini, a partire dalla cottura a cielo aperto del mosto.


la raccolta

Una pratica molto diffusa era quella della raccolta, particolarmente sviluppata in Appennino, in particolare dopo la fine della guerra, quando si cominciò a raccogliere sistematicamente sia i funghi che i tartufi, destinati non solo al consumo fresco ma anche alla conservazione e molta frutta, dal mirtillo, alla mora, al lampone, alla fragola di bosco, al ribes, al corniolo, alla rosa canina.

Un po' ovunque era invece diffusa la raccolta di erbe spontanee: radicchi, cicoria, ortica, rucola, tarassaco, crescione, borragine, capperi.


le conserve

Ai prodotti dell'orto, alla frutta, alla raccolta è legato un altro saper fare importante, quello della conservazione.

Una prima tecnica utilizzata era quella della concentrazione, basata sul principio che la riduzione della quantità d'acqua contenuta negli alimenti ne favorisce una conservazione più a lungo nel tempo, oltre che sopprimere molti microrganismi durante la cottura: è il caso della conserva di pomodoro, un'operazione che si faceva durante l'estate accendendo i fugoun, come ricorda Mirella Fiandri, con una lenta cottura all'aperto nei paioli di rame, che veniva ripetuta per le marmellate, per il mosto cotto, per il savòr. In questi casi, la concentrazione degli zuccheri, naturale ovvero ottenuta con l'aggiunta prima della cottura, consentiva di disidratare i microrganismi con la pressione osmotica attraverso le loro membrane.

Le verdure fresche invece venivano conservate in vaso, immerse nel liquido di cottura, ovvero sott'olio, dopo una scottatura, che poteva essere fatta in aceto: per una migliore conservazione alcuni aggiungevano la dose acquistata alla bottega.

Oppure potevano essere conservate sott'aceto, tenuto conto che gli acidi impediscono la crescita dei microrganismi, o in agrodolce, con aggiunta di zucchero o miele sfruttando l'azione congiunta contro i microrganismi di aceto e zuccheri; infine in salamoia oppure sottosale.

Quanto alle verdure, oltre alla conserva di pomodoro, era molto comune conservare cipolline, piselli, fagiolini, cetrioli, peperoni, capperi.

Si preparavano e si conservavano salse per i bolliti, a base di verdure in agrodolce, il cren (a base di rafano), mostarde.

Quanto alla frutta, oltre al savòr, di cui esistevano anche versioni mostardate, venivano fatte marmellate soprattutto di prugne, pesche, albicocche, ciliegie, amarene brusche e di tutti i frutti di bosco.

La frutta, soprattutto le pesche, veniva messa via anche sciroppata.

Un'ultima tecnica diffusa era la disidratazione per essiccamento, che trovava nella castagna il suo utilizzo preponderante, ma si seccavano anche i fagioli e gli altri legumi e diverse qualità di frutta. Ad esempio le mele tagliate a fette venivano fatte disidratare nel forno dopo la cottura del pane: venivano chiamate le chiappate, le sciapele e conservate da molti in forma di ghirlanda.


zucchero, sale e spezie

I contadini non compravano quasi niente: soprattutto cose che aiutavano a conservare ed insaporire i cibi. Il sale, lo zucchero, le spezie, i lieviti e le dosi sia per dolci e pani che per le conserve di verdura o per gli insaccati ed i formaggi.

La diffusione delle spezie di provenienza dall'Oriente, di cui alcune vennero coltivate in Europa, portò a significative innovazioni nelle abitudini e nelle pratiche culinarie, se non a delle vere e proprie mode nelle cucine di corte: noce moscata, macis, zafferano, pepe, chiodi di garofano, cannella, anice, senape, per citare le più importanti, entrarono prepotentemente nelle preparazioni e, dopo la scoperta dell'America, sarebbero state seguite dal peperoncino e dalla vaniglia.

Due di queste spezie meritano una riflessione in più perchè hanno marcato in modo particolare i prodotti della provincia di Modena.

La prima è la noce moscata, che non manca mai nei ripieni delle paste, cioè dei piatti simbolo delle rezdore, a cominciare dai tortellini.

La seconda è lo zafferano che colorava la famosa salsiccia gialla fina ed il Parmigiano-Reggiano: pratiche che si sono lentamente perdute dalla seconda metà dell'ottocento in avanti, anche se per ragioni non del tutto chiare.