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Tramandare la cucina modenese

di Antonio Cherchi
Fiduciario Slow Food della Condotta di Modena



La trasmissione contadina dei saperi e delle tradizioni gastronomiche

Fino alla fine della seconda guerra mondiale la maggioranza della popolazione italiana viveva e lavorava in campagna: una condizione frutto di un'evoluzione millenaria nella quale l'agricoltura è stata l'attività principale dell'uomo per procurarsi cibo e garantirsi la sopravvivenza, da quando, circa 10.000 anni fa, prima si affiancò e poi prevalse su quella dei cacciatori-raccoglitori.

Un'evoluzione realizzatasi senza drammatiche discontinuità, anche se la storia della nostra alimentazione, può essere raccontata come ha fatto Massimo Montanari, come un alternarsi di periodi di carestia e di relativo benessere (La fame e l'abbondanza, Laterza, 1993), nel corso del quale sono stati selezionati sia i prodotti che i saperi che hanno caratterizzato l'esperienza dei contadini.

Quali ne sono gli aspetti principali? Innanzitutto, non c'è alcuna separazione fra agricoltura e cucina. Non c'è cucina senza agricoltura e non c'è agricoltura senza cucina, nel senso che non solo la cucina trasforma, cercando di migliorarlo, solo ciò che viene prodotto nell'attività agricola e si sceglie cosa coltivare in funzione della necessità di reperire cibo, ma le due attività sono integrate in un corpus più ampio che comprende anche le tecniche per la trasformazione e conservazione nel tempo degli alimenti. Di per sè l'assenza di separatezza fra l'attività che procura il cibo e l'eventuale sua successiva manipolazione – ciò che chiamiamo cucinare – ovviamente contraddistingueva anche l'esperienza dei cacciatori-raccoglitori, e d'altra parte la caccia, la pesca e la raccolta di piante spontanee hanno continuato ad essere non estranee all'esperienza dei contadini e qualche volta fonte importante di integrazione delle loro diete.

Con l'agricoltura c'è però un salto di qualità rappresentato dalla domesticazione degli animali e delle specie vegetali: è il contadino che costruisce la propria nicchia ecologica, modificando profondamente l'ambiente ed il paesaggio agrario, incidendo sulla biodiversità e selezionando le specie che ritiene più adatte.

Adatto, per i cacciatori-raccoglitori probabilmente significava non solo facile da cacciare o raccogliere ma soprattutto buono da mangiare. Per centinaia di migliaia di anni, senza contare l'eredità genetica delle specie da cui proveniamo, è stata elaborata la gastronomia, nel senso etimologico di ‘legge del ventre', come risultato di un processo cumulativo per tentativi ed errori teso a far scoprire cosa poteva essere mangiato e cosa no. Quindi innanzitutto si è affermato il ruolo dei sensi ed in particolare il piacere dell'esperienza sensoriale, che derivano dall'evoluzione di quel sistema di riconoscimento e di giudizio che comprende il gusto, con la combinazione fra le sensazioni di dolce, salato, umami, acido e amaro, di cui solo oggi cominciamo a capire meglio il funzionamento, la vista, l'olfatto, il tatto, perfino l'udito, che forniscono informazioni preziose su ciò che proviamo a mangiare. Ma altrettanto importante deve essere considerata l'evoluzione dell'apparato digerente e del suo modo di funzionare e darci informazioni, dal senso di fame a quello di sazietà, alle sensazioni relative alla digeribilità, compresa la regolarità e qualità della defecazione e, a lungo termine, lo stato di salute dell'individuo.

Utilizzando i sensi e seguendo la legge del ventre si acquisí una grande conoscenza.

Come scrive Giovanni Ballarini in Alimentazione e patologia alimentare darwiniana (Mattioli 1885, 2006, p. 54): «l'alimentazione dei nostri antenati, comprendente cibi d'origine vegetale ed animale, era caratterizzata da una grandissima varietà di specie, che cambiavano nel corso delle stagioni» e derivava da una «approfondita conoscenza dell'ambiente e della flora».

Con il passaggio all'agricoltura, ‘adatto' significa ancora ‘buono da mangiare', ma anche ‘scelto', fra tutto ciò che, in base all'esperienza, è buono da mangiare perchè più facile da produrre, conservare per molto tempo, in eccedenza rispetto al fabbisogno immediato, trasformare con processi fermentativi e con la cucina. Ancora Ballarini (p. 39): «se l'uomo cacciatore e raccoglitore abbrustolisce e cuoce, è l'agricoltore che fermenta e cucina».

Si passa da una situazione in cui sono i sensi a guidare la scelta di ciò che può essere cibo ed il cibo è molto poco manipolato dall'uomo, ad una in cui il cibo viene ‘prodotto' per i sensi.

L'agricoltura ha un impatto forte sulla dieta: pur restando varia e legata alle stagioni, la dieta umana si restringe a poche centinaia di specie vegetali e qualche decina di specie animali.

Esemplare è l'uso della biodiversità, fino ad allora un regalo dell'evoluzione, che diventa mezzo per allungare il periodo di raccolto, selezionando specie precoci e tardive, o che più si prestano ad essere conservate, soprattutto in vista della stagione più difficile, la primavera, quando tutte le riserve finiscono, prima che ritorni il grande raccolto estivo.

L'agricoltore impara a selezionare le piante e gli animali domesticati; impara inoltre a sfruttare microrganismi, come quelli responsabili della fertilità del suolo, o i lieviti, i fermenti, i batteri responsabili dei processi di lievitazione o di fermentazione del pane, del formaggio, della birra, del vino o degli aceti, cosí come impara a combatterne altri, responsabili del deterioramento dei cibi, con tecniche di conservazione, dalla macinazione dei cereali, all'essiccazione dei legumi, alla salagione, alle conserve di frutta e di verdure. E in cucina si diffondono i tegami e le cotture umide (bolliti, brasati), il forno a legna, rispetto al fuoco diretto, allo spiedo, alla cottura su pietre roventi, che caratterizzavano l'esperienza dei cacciatori-raccoglitori.

Se i cacciatori-raccoglitori, come sottolinea più volte Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie (Einaudi, 1997), erano degli straordinari botanici (ad esempio p. 110: «I primi agricoltori ereditarono una cultura naturalistica accumulata in migliaia di anni da uomini che vivevano in intima unione con l'ambiente»), gli agricoltori ed allevatori possono smarrire una parte di quella cultura a favore di un insieme di conoscenze e saperi che spaziano su argomenti che riguardano oggi svariate discipline specialistiche, dall'economia, alla genetica, all'embriologia, alla biologia, alla chimica, alla pedologia.

L'espressione più eclatante della riduzione del numero di animali e di vegetali utilizzati nella dieta rispetto all'alimentazione dei cacciatori-raccoglitori è l'affermazione di ‘pacchetti' costituiti dall'abbinamento fra cereali e legumi: dalla Mezzaluna fertile arrivò nel Mediterraneo il pacchetto composto da frumento, orzo e piselli, fave, ceci, lenticchie, in Asia si sviluppò l'abbinamento fra riso e soia, in America quello fra mais e fagioli.

Da un punto di vista nutrizionale mescolare cereali e legumi consente di abbinare ai carboidrati, il principale costituente dei cereali, le proteine contenute nei legumi; dal punto di vista agricolo la coltivazione insieme delle due piante o la loro rotazione sullo stesso terreno consente di conservare la fertilità del suolo grazie alla fissazione dell'azoto operata dalle leguminose in simbiosi con i batteri.

Un secondo aspetto da sottolineare è che tutte le attività, dal campo alla cucina, sono contraddistinte da una articolata manualità e gestualità e hanno a che fare col movimento ed il coordinamento del corpo e con un coinvolgimento attivo dei sensi.

I saperi di cui dovevano essere dotati i membri delle famiglie contadine erano estremamente differenziati ma anche fortemente integrati: anche dove c'era divisione del lavoro, chi cucinava sapeva benissimo come era stato ottenuto quel particolare ingrediente che stava cucinando, mentre chi lo coltivava sapeva benissimo come sarebbe stato trattato al momento della cottura.

Il mondo contadino era conservatore ma non chiuso al cambiamento, che tuttavia doveva passare necessariamente al vaglio della griglia di conoscenze e saper fare esistenti e rappresentarne un'evoluzione più che una discontinuità. Questo vale anche per il progresso tecnologico, tant'è che spesso i contadini fabbricavano da sè gli strumenti di lavoro e ne conoscevano non solo le modalità d'uso ma anche i meccanismi del loro funzionamento. In molti casi i contadini hanno sviluppato nuove tecnologie. Ma questo vale anche per l'introduzione di nuove colture, come nel caso dei prodotti provenienti dall'America, dalla patata, al mais, al pomodoro, al fagiolo, al peperone, alla zucca e alla zucchina, al tacchino. Anche in questo caso spesso la loro introduzione è passata per l'adeguamento all'utilizzo di tecniche sia di coltivazione che di trasformazione preesistenti, come nel caso del mais consumato prevalentemente come farina o del fagiolo, essiccato come i ceci o le fave.

Da un punto di vista sociale, non dobbiamo dimenticare, come sottolinea Diamond (ibidem, p. 67) che «la domesticazione di piante ed animali portò una maggiore disponibilità di cibo e quindi una più alta densità di popolazione. Il surplus alimentare e l'uso degli animali come mezzo di trasporto furono fattori che portarono alla nascita di società politicamente centralizzate, socialmente stratificate, economicamente complesse e tecnologicamente avanzate», nelle quali, aggiungiamo noi, i contadini erano una classe sociale subordinata. Pertanto la dieta ed i comportamenti alimentari dei contadini sono sempre stati condizionati dal loro status sociale non meno che da precetti religiosi e dalle regole piuttosto rigide della famiglia patriarcale.

In contesti come questi, come si trasmettevano i saperi relativi al cibo da una generazione all'altra?

Recentemente è stato tradotto un libro che può aiutare ad affrontare in modo nuovo questo tema: si tratta de L'evoluzione in quattro dimensioni: variazione genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica nella storia della vita di Eva Jablonka e Marion J. Lamb (utet, 2007). L'originalità del loro approccio consiste intanto nell'aver cercato di analizzare in modo distinto ed autonomo come i quattro tipi di variazione indicati nel titolo possano dar luogo ognuno ad evoluzione, per poi provare ad analizzare le reciproche interazioni fra loro.

Per i nostri fini le variazioni più rilevanti sono senz'altro le ultime due, quella comportamentale, che accomuna in particolare l'uomo ad altri animali sociali e quella simbolica che appare originale della specie umana.

Ovviamente la trasmissione di testi scritti, come le ricette, di immagini o di altri simboli, come quelli che oggi troviamo nelle etichette dei prodotti, fa parte di quest'ultimo mezzo di evoluzione.

E ne fanno parte la religione e le sue prescrizioni in materia alimentare, nonchè i proverbi e tutti gli altri precetti che si fondano sull'esperienza, che per poter essere espressi fanno uso del linguaggio ed in particolare del dialetto.

Ciò che contraddistingue i simboli è che rappresentano un contenuto o significato diverso dalle apparenze: come ricordava Gregory Bateson in Mente e natura (Adelphi, 1984, p. 47): «la mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata» perciò «i sistemi simbolici consentono la costruzione di una realtà immaginaria condivisa» (Jablonka e Lamb, p. 250). Inoltre «le informazioni simboliche non devono essere eseguite per essere trasmesse: a patto che rimanga intatta la cultura in grado di interpretarle, possono restare inattuate per generazioni. La ricetta della zuppa della nonna può trasmettersi all'interno della famiglia per varie generazioni prima che qualcuno torni davvero a cucinarla» (ibidem, p. 252). Di più, «essendo convenzioni condivise – segni socialmente concordati – i simboli possono essere modificati o tradotti in altre convenzioni corrispondenti» (ibidem, p. 254) e dar luogo con grande facilità anche con piccole variazioni mirate, e addirittura senza alcuna variazione – si pensi all'interpretazione di un quadro d'arte moderna – a nuovi significati.

La trasmissione dell'informazione simbolica può avvenire sia in senso orizzontale che verticale, senza che siano necessari vincoli di parentela: occorre tuttavia un'istruzione attiva, in quanto deve essere acquisito il sistema simbolico in sè.

Tornando al ragionamento iniziale sulle ricette, è solo grazie ad una scuola che insegni tutto ciò che serve per interpretare le ricette, come avveniva nelle grandi cucine di corte, che si può avere una conservazione delle tradizioni culinarie, che coinvolga lo strumento ricetta.

Peraltro il sistema simbolico deriva da quello comportamentale che è contraddistinto dal fatto che «un animale trasmette informazioni comportamentali solo nel senso che, tramite il suo comportamento, altri esemplari le acquisiscono» (ibidem, p. 196).

La trasmissione delle informazioni relative al cibo avviene con specifiche modalità:

– una prima modalità è data dai segnali chimici: le preferenze alimentari possono essere trasmesse dalla futura madre attraverso il liquido amniotico e la placenta; il contenuto del latte della madre è influenzato da ciò che mangia ed è in grado di influire sulle preferenze alimentari della prole e ancora, l'alito, la saliva e, in alcune specie animali, anche le feci, consentono anch'essi la trasmissione di informazioni sulle abitudini alimentari della madre;

– una seconda modalità è tramite l'apprendimento di carattere non imitativo, di cui fa parte l'imprinting comportamentale, cioè le abitudini acquisite nelle prime fasi di vita, ma anche l'apprendimento per tentativi ed errori di qualcosa che si è visto fare agli altri: si impara dagli altri cosa fare e da sè come farlo;

– infine vi è il comportamento imitativo vero e proprio in cui «un esemplare ingenuo impara non solo cosa fare ma come farlo, copiando le azioni altrui». Ciò che è interessante è che «il comportamento deve essere palese per poter essere ereditato», «il contenuto informativo si trasmette una unità dopo l'altra» e «la trasmissione dell'informazione non è indipendente dalla funzione e dal significato».

Secondo le autrici è l'insieme dei comportamenti appresi per questa via che genera l'insorgere delle tradizioni, cioè di stili di vita consolidati, ma anche la loro evoluzione: «la tradizione (culinaria) include i modi di preparare, cucinare e servire il cibo ed è strettamente associata ad altri aspetti dell'esistenza, come i rituali religiosi e profani. è chiaramente il risultato di un'evoluzione cumulativa in cui si mantengono abitudini acquisite nel passato per trasformarle nelle basi su cui si fondano usanze ulteriori» (ibidem, p. 222).

Il mondo delle tradizioni culinarie contadine è debitore in massima parte, più che dell'ereditarietà simbolica, di quella comportamentale, soprattutto grazie ad alcuni fattori: ambiente stabile; legame stretto con l'agricoltura; passaggio di informazioni tramite la madre o la balia durante la gravidanza e l'allattamento; vita all'interno di famiglie di tipo patriarcale, in un ambiente sociale ristretto in cui vivevano a lungo fianco a fianco persone di più generazioni; grande rilevanza della manualità e della gestualità in tutte le attività.

I bambini, fin da piccoli, educavano i loro sensi ed acquisivano grande familiarità con tutti i prodotti agricoli e le tecniche ed i saperi ad essi relativi, dalla coltivazione fino alla preparazione culinaria.

L'importanza dell'imitazione per la trasmissione dei saperi basati sulla manualità è confermata dai più recenti studi sul cervello ed in particolare quelli sui neuroni specchio, a cui hanno da poco dedicato un libro di grande importanza due ricercatori italiani (Rizzolatti e Sinigaglia, So quel che fai, R. Cortina Editore, 2006) che smonta la concezione che vi sia un prevalere del sapere sul fare, nel senso che prima si vede, si capisce e poi si fa, cosicchè il movimento (il fare) sarebbe un'attività puramente subordinata; al contrario, sembra che siamo dotati di un sistema di neuroni visuomotori che si attivano specificamente quando si tratta di vedere per il movimento e che sono responsabili del coordinamento di movimenti complessi come prendere in mano una tazzina, indipendenti dai normali circuiti della visione. Non solo, alcuni neuroni, che per questo sono stati chiamati ‘specchio', si attivano anche quando vediamo qualcuno altro fare una cosa, che già sappiamo fare, consentendoci di comprendere le azioni altrui, nonchè nell'apprendimento di tutte le attività che hanno a che fare col movimento e con il coordinamento del corpo. In quest'ultima circostanza in particolare occorre che il movimento venga scomposto in segmenti già presenti nel repertorio di gesti ed appreso per imitazione.

Evidenziata l'importanza del comportamento e dell'imitazione per la trasmissione dei saperi non bisogna dimenticare che il comportamento, soprattutto quello dei contadini, trasforma e plasma l'ambiente, cosí che è inevitabile che si producano processi coevolutivi che coinvolgono ambiente, cultura e patrimonio genetico.

L'interazione fra ereditarietà biologica, eredità culturale, ambiente e cibi è un argomento molto affascinante intorno al quale sta crescendo l'interesse da parte dei ricercatori: l'ereditarietà biologica in relazione con l'ambiente produce organismi che esibiscono cultura che modifica l'ambiente che seleziona i geni.

Se noi, come specie, siamo il risultato di una selezione protrattasi per migliaia di generazioni, siamo portatori di differenze genetiche che sono state selezionate sulla base dei diversi ambienti e dei diversi cibi che hanno mangiato i nostri antenati.

Diventa allora interessante capire che influenza esercitino mutamenti nella nostra dieta ed in particolare se influenzino l'evoluzione genetica solo in modo indiretto – l'uso di nuovi cibi favorirà i genotipi più adatti agli stessi o comunque i genotipi variati casualmente che si rivelino essere più adatti ai nuovi cibi – ovvero se avrà un'influenza sul tasso e sulla direzione della variazione genetica, in modo che nuovi stili alimentari inizialmente acquisiti culturalmente vengano pian pianino ovvero rapidamente assimilati geneticamente.

Tutti gli organismi costruiscono più o meno la loro nicchia sotto forma di artefatti, comportamenti e culture dei loro avi. I cambiamenti di usi e tradizioni possono far si che essi creino un ambiente fisico e sociale per se stessi ed i loro discendenti molto diverso.

Jablonka e Lamb citano l'effetto Baldwin: «quando gli animali si trovano di fronte ad una nuova sfida, i singoli esemplari dapprima vi si adattano attraverso l'apprendimento. Se la pressione della selezione persiste, questo apprendimento individuale permette alla popolazione di sopravvivere abbastanza a lungo da consentire la comparsa di nuove variazioni ereditarie congruenti, destinate a rendere superfluo l'apprendimento» (p. 359).

Tutto il libro di Gary Paul Nabhan A qualcuno piace piccante (Codice, 2005), affronta in modo esplicito il tema, ipotizzando che i cambiamenti negli stili alimentari abbiano avuto un impatto forte sulla biodiversità umana che è stata selezionata dalle scelte alimentari passate. Improvvisi cambiamenti nelle diete possono far emergere problemi sanitari di rilevanza sociale dovuti a differenze genetiche, come l'autore sostiene con riferimento alla vulnerabilità di molti indiani d'America agli zuccheri semplici, al latte ed all'alcool.

Come sottolinea Giovanni Ballarini «Biologia e cultura hanno tempi d'evoluzione molto differenti. I tempi dell'evoluzione biologica si calcolano in migliaia di generazioni (200.000 anni sono circa 6.500 - 7.000 generazioni umane) mentre […] i 10.000 anni che ci separano dall'invenzione dell'agricoltura […] sono al massimo 300 generazioni, mentre gli ultimi cento anni di evoluzione culturale comprendono soltanto tre generazioni […]. Se esaminiamo cos'è avvenuto in questi ultimi cento anni, che sono soltanto lo 0,05% della vita della nostra specie, un'inezia, ci si può rendere conto del sempre più grande divario che si è venuto a creare fra la biologia e la cultura umana!» (p. 20).

I cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi cinquant'anni del secolo scorso hanno innanzitutto messo in crisi tutti i meccanismi di trasmissione comportamentale del sapere gastronomico, legati al mondo contadino, senza sostituirli esplicitamente con altri: si è spezzato il legame fra cucina ed agricoltura, le giovani generazioni hanno smesso di imparare per imitazione dalle più anziane (vanno a scuola e guardano la tv, come potrebbero?), non si cucina quasi più in casa, si svezzano i bambini utilizzando quasi esclusivamente cibi prodotti da un'industria specializzata, si allatta sempre meno al seno ed il cibo delle mamme non è più lo stesso.

Ma il cambiamento negli stili alimentari e di vita è probabilmente una dura prova anche per l'efficacia del nostro patrimonio genetico e la sempre maggior diffusione di allergie, malattie e disfunzioni legate all'alimentazione forse potrebbe esserne una dimostrazione.


storie di terra e di rezdore

La ricerca Storie di terra e di rezdore è stata realizzata, su sollecitazione della Provincia di Modena, da Slow Food Italia, proprio per indagare la specifica esperienza contadina modenese e per capire cosa abbia significato questo cambiamento epocale con riferimento alla trasmissione delle tradizioni sia agricole che culinarie.

La ricerca comprende circa 200 testimonianze filmate, poi anche trascritte, per lo più raccolte nell'estate del 2006, di anziani della Provincia di Modena che hanno raccontato il loro rapporto con la terra (non solo con l'agricoltura, ma anche con la raccolta spontanea, la caccia, la pesca) e con la cucina in un periodo in cui è cambiato tutto, tra gli anni trenta, l'ultimo decennio dell'epoca fascista, e gli anni settanta del Novecento.

Ovviamente, per come è stata fatta, la ricerca non ha prodotto una descrizione strutturata e semplice di quanto è avvenuto, ma tante tessere utilizzabili per costruire puzzle diversi, a seconda dei temi che si vogliono indagare.

Praticamente per tutti gli intervistati, i ricordi dell'infanzia sono legati alla terra ed alla campagna in cui vivevano, perchè appartenevano a famiglie contadine (piccoli proprietari, mezzadri, semplici braccianti) o di grandi proprietari. Terra che poi quasi tutti hanno abbandonato per andare a lavorare nell'industria o nei servizi, molti lasciando il luogo di origine per la città o il paese più vicino, altri emigrando verso luoghi più lontani.

Fino alla fine della seconda guerra mondiale Modena era una provincia prevalentemente agricola e relativamente povera, e nell'arco dei successivi trent'anni è diventata una delle zone più industrializzate e ricche d'Italia e d'Europa.

Le interviste di Storie di terra e di rezdore, sono un documento certamente molto parziale e limitato, ma tuttavia forniscono un quadro abbastanza preciso dell'agricoltura modenese e della vita dei contadini prima della seconda guerra mondiale, eredi di una tradizione protrattasi per migliaia di anni.

L'agricoltura della media pianura modenese era un'agricoltura piuttosto ricca, caratterizzata, anche quando la proprietà dei fondi era molto più ampia, da poderi condotti a mezzadria (il 50% per cento del prodotto andava al proprietario ed il 50% al contadino mezzadro), della dimensione media di circa 10 ettari, in cui veniva praticata la policoltura-allevamento che rappresenta la risposta migliore che ha saputo esprimere l'agricoltura europea, da sempre costretta a fare i conti con l'alternarsi di periodi di relativa abbondanza con grandi carestie, al problema della conservazione a lungo termine della fertilità dei suoli. Come ricordano Claude e Lydia Bourguignon ne Il suolo un patrimonio da salvare (Slow Food Editore, 2004, p. 164): «bisognerà attendere il Settecento e l'invenzione della policoltura-allevamento, vale a dire la sostituzione del maggese con il pascolo, perchè le carestie in Europa vengano a cessare. Il pascolo, infatti è costituito da graminacee e leguminose fissatrici di azoto che nutrono il bestiame produttore di concime, il che permette nel migliore dei casi di incrementare le rese , nel peggiore di mantenerle invariate». La policoltura-allevamento della pianura modenese probabilmente fu, se non il migliore, uno degli esempi migliori di questa tecnica.

La rotazione tradizionale alternava alle graminacee (soprattutto grano, dopo anche mais) le leguminose (erba medica, erbe polifite), fissatrici di azoto, da cui si ricavava il foraggio per il bestiame. L'allevamento del bestiame in piccole stalle permetteva di sfruttare la triplice attitudine delle razze bovine autoctone, in particolare della razza bianca modenese-valpadana, da lavoro, da carne e da latte, ed inoltre permetteva, grazie alla letamaia, di restituire al terreno gran parte di quanto era stato prelevato. Per di più le maglie poderali erano divise dai filari delle piantate di olmi maritati alle viti di lambrusco, particolarmente generose. Inoltre i contadini mezzadri tenevano l'orto, alberi da frutta, animali da cortile e ingrassavano il maiale per le proprie necessità. Intorno alle aziende mezzadrili nacquero i primi piccoli caseifici che utilizzavano il latte per la produzione del Parmigiano-Reggiano e della ricotta ma anche del siero che veniva utilizzato per allevare i maiali nelle porcilaie attigue ai caseifici, maiali poi destinati agli artigiani salumieri. Quanto all'uva, le prime cantine sociali per la produzione del lambrusco si svilupparono fin dai primi anni del Novecento.

Si era perciò di fronte ad un modello di azienda agricola capace di andare ben oltre una produzione di mera sopravvivenza e di produrre per il mercato, il grano, il latte, i maiali e l'uva, coniugando in modo sofisticato la conservazione della fertilità del suolo con la tutela della biodiversità e l'economicità della gestione.

Il grande teorico di questo modello che riconosce che l'azienda agraria è diversa da tutte le altre aziende per la sua specificità biologica e che «la soluzione del problema economico della produzione richiesta dal mercato diviene perciò un problema subordinato, ma non per questo trascurabile, al problema biologico e agronomico, che è e rimane quello fondamentale» fu Alfonso Draghetti, che dal 1927 diresse la stazione sperimentale agraria di Modena che ha riportato i risultati delle sue ricerche in quella che è stata una sorta di bibbia per gli agricoltori, non solo modenesi, prima che prevalesse un modello di agricoltura basato sulla chimica, e cioè I principi di fisiologia dell'azienda agraria, pubblicato per la prima volta nel 1948, da cui è tratta la citazione sopra riportata.

Le interviste ai contadini della pianura modenese ricostruiscono molti aspetti della storia di quel modello agricolo, anche con le sue contraddizioni, perchè non sempre la divisione paritaria del raccolto garantiva condizioni di vita decorose alle famiglie dei mezzadri.

Dal dopoguerra in avanti, prima le lotte per la trasformazione della mezzadria, poi le nuove occasioni di lavoro negli anni della ricostruzione e del boom economico portarono ad un abbandono delle campagne ed al disfacimento del modello dell'azienda mezzadrile. Soltanto alcuni mezzadri diventarono proprietari, si diffusero le cooperative che lavoravano i fondi in economia, in generale l'agricoltura si trasformò sopperendo alla carenza di manodopera con una spinta meccanizzazione. Soprattutto si diffuse un modello di agricoltura specializzato più decisamente orientato al mercato ed all'economicità della gestione, in particolare all'aumento delle quantità e delle rese ed alla riduzione dei costi.

Le piccole stalle vennero sostituite da stalle sempre più grandi dove al posto delle bovine autoctone venivano allevate le mucche pezzate frisone perchè producevano più latte (anche se di una qualità inferiore per la caseificazione) e crebbero anche le dimensioni dei caseifici.

L'allevamento di maiali in grandi porcilaie non dipendeva più dal siero prodotto, ma dai mangimifici.

Le piantate di uva maritata all'olmo vennero sostituite da vigneti specializzati.

Si diffusero nuove monocolture, dal pomodoro, alla barbabietola da zucchero, al mais, alla frutta.

Prevalse una concezione opposta a quella di Draghetti, che intende l'agricoltura come un'attività economica come le altre, controllabile con la tecnologia: la selezione genetica venne orientata verso cultivar a maggiore resa e più adatte al lavoro meccanizzato; i concimi chimici a base d'azoto sostituirono l'apporto naturale dato dalla colture di leguminose e dal letame e spinsero verso la specializzazione aziendale e le monocolture, abbandonando la policoltura-allevamento; imperversarono in un primo tempo gli insetticidi, il cui uso venne poi temperato con la tecnica della lotta integrata.

Ne conseguí un incremento impressionante delle quantità prodotte e lo sviluppo di un'industria di trasformazione anch'essa caratterizzata dalla specializzazione, un'attività che sforna prodotti assolutamente distinti l'uno dall'altro – il lambrusco, l'aceto balsamico, il parmigiano-reggiano, i salumi, la frutta, i cereali, le conserve – ciascuno con la sua filiera a monte, con le sue peculiarità e con i suoi problemi.

I racconti dei contadini intervistati, viceversa, dimostrano che tutti i più famosi prodotti della gastronomia modenese – dalla sfoglia, ai pani, al parmigiano, al prosciutto e gli altri derivati del maiale, al lambrusco e l'aceto balsamico – erano figli di un'unica madre, di quella agricoltura, fondata sull'azienda mezzadrile, sulla piccola scala, sulla qualità e sul rispetto dell'ambiente.

Ma c'è di più: ciò che oggi viene chiamata cucina modenese, come ad esempio è rappresentato nell'ormai classico omonimo libro di Sandro Bellei (Franco Muzzio Editore, 1990), è un complesso di saperi gastronomici debitore in forma preponderante di quella tradizione: basta leggerne l'introduzione, ovvero l'articolo dedicato da Bellei a Storie di terra e di rezdore, intitolato Una cucina sempre uguale eppure diversa, per rendersene conto.

Nel mondo contadino, si è detto, non c'era cucina senza agricoltura: «mangiare è un atto agricolo», come ricorda il poeta contadino americano Wendell Berry.

Allora, se si deve scrivere la ricetta dei tortellini in brodo, non è sufficiente parlare del brodo, della sfoglia, del ripieno: bisogna partire dalla descrizione del lavoro contadino, dalla coltivazione del grano tenero alla macinazione della farina, dell'allevamento delle galline per le uova e per la carne da brodo, di quello dei bovini per il Parmigiano-Reggiano ed ancora della carne per il brodo, dell'allevamento dei maiali per procurarsi la lonza, e di come si fanno la mortadella e il prosciutto.

Tutto ciò era prodotto dai contadini, depositari di quei saper fare.

Si compravano solo il sale, il pepe e la noce moscata.

Ciò che scarseggiava era semmai la possibilità di fare i tortellini in brodo, che erano un piatto raro, riservato al Natale, alla Pasqua ed a poche occasioni particolari.

Oggi, «con tutto il ben di Dio che c'è», come dicono le rezdore che vivono in città e che allora erano bambine, i tortellini possono permetterseli tutti quasi tutti i giorni, ma la farina, le uova, la carne, il prosciutto, la mortadella, perfino le spezie, non sono più quelli di allora.

Se i tortellini sono ancora buoni, è perchè le cuoche sono loro e ci stanno ingannando con i loro saperi: tirano ancora la sfoglia a mano e si ingegnano a ricostruire sapori e profumi che sono scolpiti nella loro memoria, mentre gli ingredienti che usano sono stati prodotti avendo come interlocutore privilegiato non loro ma l'industria della pasta fresca.

Diverso il caso dell'alta collina e della montagna modenese, caratterizzate da una agricoltura basata sulla piccola proprietà ma con risultati che spesso garantivano la sola sussistenza. Negli anni quaranta la situazione non era molto diversa da quella descritta da Adolfo Ferrari nel 1882 in un articolo su Lo Scoltenna in cui lamentava l'arretratezza tecnologica – quasi tutto era fatto ancora a mano – e l'estrema frammentazione della proprietà contadina, fondata sulla coltivazione di cereali, di patate o di un poderetto con qualche albero da frutta, un po' di canapa o di lino, pochi bovini da lavoro che davano un po' di latte per produrre un po' di formaggio, l'orto, pochi animali da cortile.

In quelle zone per secoli uno degli alimenti principali è stata la farina di castagne: erano attività importanti la coltivazione dei castagneti, la raccolta e l'essiccazione delle castagne nei metati, ed una gastronomia capace di ricavare un pasto dalla farina di castagne.

In alcune zone, nulla veniva prodotto per il mercato, se non qualche vitello, ed i contadini, come raccontano in tanti, barattavano un po' di zucchero, di sale, di olio, di spezie con le uova o lasciavano le due cosce dell'unico maiale che si allevava per coprire il debito accumulato con la bottega.

La rottura degli equilibri successiva alla seconda guerra mondiale, non poteva che portare ad una vera e propria fuga dalle campagne, anche se l'emigrazione stagionale (i pastori transumanti, i boscaioli, gli scalpellini) o permanente (la grande migrazione dei primi venti anni del Novecento) è sempre stata una costante nella storia di quelle terre.

Lo stereotipo delle cucina modenese ricca, grassa, opulenta, è probabilmente figlio sia della sontuosità e ricchezza dei banchetti della corte estense e delle altre corti della provincia, sia di un clima sociale, dal boom economico in avanti, con una nuova ricchezza e abbondanza, in cui potevano diventare quotidiani piatti, come i tortellini, che prima erano riservati soltanto alle feste, mentre andavano piano piano sparendo i piatti più poveri che una volta avevano sostenuto l'alimentazione dei contadini.

Sono tantissime le informazioni contenute nelle interviste di Storie di terra e di rezdore relative a cosa si mangiava.

Con la buona stagione si andava a lavorare molto presto nei campi e la colazione arrivava verso le otto e consisteva soprattutto di gnocco fritto in pianura e di crescentine in montagna: gnocco con una fetta di salume, ma più facilmente con l'uva, col melone, coi cipollotti o con niente, come ricorda Maria Bozzali; crescentine col tradizionale condimento di lardo. Ma Umberto Neri, per esempio, ricorda che arrivava una zuppa di acqua con burro e formaggio, Fausto Frigeri l'anguria col pane.

Poi a pranzo e cena, solo un piatto.

Giovanni Sghedoni e la moglie ancora ricordano i sette piatti della settimana: domenica brodo, martedí e giovedí brodo, una volta maltagliati coi fagioli, mercoledí i maccheroni, venerdí minestra vedova (del condimento), uova o baccalà, sabato maccheroni con ragù.

D'inverno, ricorda Ada Menabue, solo due pasti: una volta maccheroni, una riso, una volta zucchine, patate in umido, patate e fagioli. Elisabetta Battilani ricorda soprattutto le verdure: passato di verdure, pasta e fagioli, patate cotte la sera.

A casa di Norma Guerzoni a mezzogiorno pucciavano in cinque il pane in un uovo con l'aceto, mentre a casa di Romano Morselli, il marito, mangiavano la polenta con la saracca.

La sfoglia si faceva, se non tutti i giorni, almeno tre, quattro volte la settimana e costituiva la base per alcuni dei piatti più diffusi: le tagliatelle e i maccheroni al pettine al ragù, i tortelloni di ricotta o di zucca, i maltagliati coi fagioli, i quadretti e i grattini da fare in brodo magari con l'uovo (con la concia, o in terdura).

Si mangiava bene solo a Natale, a Pasqua, per la sagra del santo patrono, ai matrimoni ed in alcune occasioni particolari in cui si riunivano più famiglie, per la ‘zerla' (l'aratura), per la trebbiatura, per l'uccisione del maiale.

Ovviamente il piatto principe delle feste era il tortellino in brodo, che resta il simbolo dell'abbondanza, un po' come il pane di Natale che, come acutamente osserva Luciana Nora, ha dentro di tutto, dal savòr alle noci, i pinoli, l'uva secca ed una forma che ricorda molto il lievito madre; ma non mancavano gli arrosti, i lessi, le torte.

Anche nelle famiglie più benestanti c'era molta sobrietà: secondo Mario Schiavi il pranzo comune del modenese era la minestra asciutta o in brodo, poi la pietanza essenzialmente basata sul pollo, le sorelle Ghibellini ricordano che a mezzogiorno si mangiava minestra asciutta, pietanza e frutta e alla sera la minestra era sempre in brodo.

Al centro dell'attività in cucina c'era ovviamente la rezdora, con il proprio bagaglio di conoscenze accumulato seguendo fin da piccola la nonna e la mamma, la cui efficacia doveva essere attestata durante la prova della sfoglia per le promesse spose, con il mattarello che veniva dato in dote.

Nella cucina c'era il camino oltre che, di solito, uno spazio dove venivano trasportate le braci, in modo da poter cuocere più cose, poi sostituiti dalla cucina economica a legna.

Nel camino, appeso a una catena, c'era il paiolo di rame, o stagneda, dove si poteva bollire ovvero fare la polenta, i treppiedi dove appoggiare la padella, anch'essa di rame.

In montagna, ai lati del camino venivano conservate le tigelle per cuocere le crescentine.

All'esterno c'era il forno a legna.

La preparazione delle pietanze era basata su poche principali attività, oltre quella già ricordata di tirare la sfoglia:

- tagliare, a coltello, ma poi con l'ausilio di attrezzi come le grattugie, il tritacarne o il passaverdura o il torchio per la pasta;
- impastare, con o senza l'aggiunta di lievito, per i vari tipi di pane, per la sfoglia, per i dolci, per le salse, anche in questo caso a mano libera o con l'uso di fruste o di impastatrici, come la grama;
- bollire, cioè cuocere in abbondante acqua a fuoco diretto;
- cuocere in umido, cioè sempre a fuoco diretto, ma con liquidi aggiunti poco a poco, controllando la cottura: una modalità adatta per sughi, piatti di verdura, carne, pesce, ma anche per i risotti;
- friggere in padella;
- cuocere al calore secco nel forno a legna o sulle braci.