31/07/2006
Cucina
Nirano, Frazione di Fiorano Modenese
Mirella Fiandri e Mario Bettini
Stricchetti con i piselli e la pancetta
I prodotti agro-alimentari, usi e ricette di una volta
Progetto di piantagione degli ulivi
PARTE 4
Si accompagnavano con dei contorni?
Mirella: solitamente, si facevano con delle patate arrosto, buone.
Che patate?
Mirella: noi avevamo delle patate che venivano da Montese. La patata di Montese è molto
buona, perché c’è un tipo di terreno penso che sia sabbioso.
Era buona. Noi non eravamo dei gran produttori di patate perché in questa
zona il terreno è argilloso e la patata ha bisogno di un terreno morbido,
allora si andava a Montese e al Faeto qua vicino a Serramazzoni. Venivano bene
i fagioli da noi, si mettevano i denti di vecchia, i fasô dal pepa, che
secondo me erano quelli di Spagna, quei bianchi che si usavano per gli umidi,
poi facevi il raccolto che durava per l’inverno, mettevi via un sacco di
fagioli, mettevi via le patate, il vino c’era nella cantina. Invece di
guardare la televisione a s’andèva a vègg nelle stalle, “vègg” vuol
dire veglia, non c’era la televisione, allora c’erano i narratori.
Ci racconti un po’ cosa succedeva?
Mirella: la stalla era un momento di aggregazione perché venivano anche
i ragazzini per vedere le ragazzine, era un ritrovo. In casa c’era freddo,
dove andavi? O in chiesa per trovare della gente. C’era poi tutto un rituale:
c’erano le vecchie che filavano e davano l’occhio, così si
diceva, il rosario, però molti ragazzi scantonavano perché erano
i primi turbamenti erotici, diciamo. Ci si vedeva poco nelle stalle, c’era
un lumino lì, le donne lavoravano, chi a maglia, chi filava e poi si parlava
e questo narratore raccontava delle favole, addirittura ce n’erano di quelli
molto intelligenti che sapevano la divina commedia a memoria. Poi ci raccontavano
delle favole che facevano anche paura, ti mettevano il terrore, erano i film
dell’orrore moderni, si andava a letto con una paura perché parlavano
di spiriti, di cose che vedevano. Quando si passava vicino i cimiteri avevamo
una paura io e mia sorella che correvamo, i gìvan che i han dèt
che a-s sèint, che ci si sente. Secondo me, era la fame o anche l’immaginazione
perché non credo che tutti questi fenomeni paranormali esistessero, poi
quando uno ha paura immagina anche più della realtà. Io ho dei
bei ricordi, infatti ieri sono andata nel paese dove sono nata, ci siamo trovati
in molte persone, di quando eravamo ragazzini, ci raccontavamo le nostre esperienze,
i momenti erano: la chiesa, il vespro che adesso credo che non usi più,
ci si vestiva tutti bene, ci si profumava, mi ricordo che c’erano i profumi
che si chiamavano Capriccio, Etrusca, Note d’Oriente, tutti profumi particolari
e si andava in chiesa come andèr a ‘na sfilèda,
non credo che ci fosse una gran religiosità, erano poi buone usanze perché non
ci hanno mica insegnato a fare del male, intanto ci hanno insegnato delle regole
che penso che nella vita servano. Poi dopo, la vita ti drizza s’la
sdréssa o se no tet fiach, perché drisèr un gób a-s
fa fadìga.
Nel suo orto si coltivavano o si coltivano ancora oggi delle
erbe o degli odori?
Mirella: sì, io ho avuto la fortuna di avere una nonna, che era andata
in servizio in Provenza e ha portato a casa delle piantine di lavanda, che a
Monte Barazzoni nessuno ce l’aveva, perché era considerata una pianta
superflua, un’erba che non rendeva. Si coltiva il rosmarino, il basilico,
invece la mia nonna aveva la lavanda, poi ci ha insegnato che serve anche il
serpillo; abbiamo un’altra erba che io la chiamo di Santa Maria che ha
un profumo particolare, poi c’era la menta di cui io sono una appassionata,
ho 3-4 tipi di menta.
Queste erbe come si usano in cucina?
Mirella: molte erbe si possono mettere in quasi tutti i piatti, perché se
uno vuol fare una cucina saporita senza esagerare nei sali e nei grassi deve
usare molte erbe aromatiche che ti danno gusto senza esagerare con i condimenti.
Nella tradizione della vostra famiglia si usavano?
Mirella: sì, noi nel minestrone mettevamo un po’ di serpillo, una
foglia o due di basilico, e anche un pochino di menta assieme a tutte le altre
verdure. Il minestrone si faceva con quello che avevi in quel momento li nell’orto,
avevi due foglie di verza, di cavolo, poi stava nella fantasia delle reggitrice
della rezdóra, l’andèva in dl’ort e col grembiel
la tachèva a guardèr, la tulìva sò quel ch’a
gh éra, a-n’s giva mènga a vói quest e quest, ma a-s
giva a gh ho quest, tanto le erbe sono tutte commestibili in campagna fuori
che la cicuta. Io se voglio posso mangiare anche dell’erba medica, quella
roba lì non fa mica male. Non c’erano delle regole precise, al giorno
d’oggi invece dicono questa ricetta si fa con questo questo e questo, d’accordo
perché li trovi tutti ma lei immagini una donna di campagna di una volta
con 10-12 persone da mettere a tavola, se un’annata c’era stata della
miseria, la grandine che non avevano potuto fare il vino, avevano poca farina,
poco di tutto, lì si che bisognava inventarsi di insaporire la roba e
di fare miracoli in cucina, le donne erano brave per forza, hanno inventato delle
cose che poi dopo sono rimaste.
Mirella ci vuole parlare della presenza dell’ulivo in
questa zona?
Mirella: da ricerche storiche che sono state fatte già dal ‘700-‘800
c’era l’ulivo qua, perché si parla di esemplari di ulivo al
tempo di Matilde di Canossa, secondo me è stata una gran donna guarda
caso era una donna che faceva filare tutti in riga. Degli esemplari noi ne abbiamo
qui in questa zona di veramente vecchi, non so dire di preciso l’età,
poi ci sono delle immagini antiche dove sono raffi- gurati gli ulivi. Il perché si
sia persa questa coltivazione è difficile dirlo con sicurezza come è difficile
dirlo di una qualsiasi cosa che è scomparsa, si fanno delle ricerche,
delle supposizioni ma il perché esatto non si sa, può essere anche
una situazione di clima, una gelata improvvisa, anche di gente che ha cavato
queste piante per scaldarsi, io suppongo, chi lo sa. Una cosa è certa,
che da esemplari autoctoni stiamo reimpiantando, stiamo cercando di fare delle
cose per tornare ad avere l’ulivo in queste zone, io ne ho di quelli che
hanno 10-12 anni, posso dire che resiste e mi ha incoraggiato a piantarne degli
altri.
Come mai qui cresce l’ulivo?
Mirella: perché dove abito io in questa zona c’è un microclima,
lascio fuori gli oleandri e tante altre piante e non mi gelano, mentre invece
basta andare un po’ più giù dove c’è il fiume
che è già più freddo, infatti molti esemplari più vecchi
si trovano sulle colline, non nella basse dove c’è freddo.
Remo: Infatti anche qui a Castello di Nirano ci sono degli esemplari che
sono molto eclatanti e anche con l’ammi162 nistrazione comunale stiamo
facendo questo progetto. Sono state prese delle cultivar, delle piante autoctone,
sono stati portati a Castelfranco allo Spallanzani dove hanno fatto questi piantamenti
e c’è uno studio mirato per la coltivazione di queste cose che poi
saranno reinseriti nei nostri terreni per poter vedere la produttività di
queste piante.
Quante piante avete già reimpiantato?
Mirella: io penso che siano più di duemila, poi c’è molto
entusiasmo e questo dimostra che siamo persone molto motivate, io ho delle piantine
autoctone che sono alte così, data la mia età sarà ben difficile
che io veda i frutti di queste piante, i risultati. Però secondo me, è un
dovere lasciare delle tracce di noi, qualcosa, io penso che i miei figli, i miei
nipoti diranno “ma chi li ha piantati questi ulivi?”
Che cultivar avete qua?
Mirella: noi abbiamo del leccino, del frantoio. Poi abbiamo quelle autoctone
che di preciso non so dire di che qualità sono… sono piante che
hanno provato anche a fare la spremitura.
Quindi fanno delle olive.
Mirella: per gli oli hanno provato a fare l’esperimento, l’amministrazione
ha portato un tot di olive di questa zona a farle spremere in un frantoio e hanno
dato una resa più che soddisfacente.
Quando vengono mature le olive?
Mirella: io penso a fine ottobre, novembre; dipende anche poi dal clima come
in tutte le altre coltivazioni, possono essere 5-10 giorni che sbagliano. Remo:
Poi avendo fatto questo particolare sperimento di spremitura si riesce a capire
la pianta che può avere più resa rispetto ad un’altra e si
punta dopo alla coltivazione di quel particolare ceppo.
Da quanto tempo è partito questo progetto?
Mirella: Io ne avevo alcuni da prima, ho visto che resistono, non sono gelati,
questo progetto è iniziato 3 anni fa circa, se n’è parlato
già da tanto tempo, però in fase di attuazione sarà da 3
anni, poi troviamo sempre degli adepti, si dice così, insomma quî chi
vólen etrèr in dal gir. Remo: Effettivamente molti sono entrati
e aspettiamo sempre le conferme di queste spremiture per capire quelle che sono
più redditizie, anche quelle con l’olio migliore. Mirella: anche
perché, secondo me, se uno fa un esperimento c’è da aspettare
un pochino di più perché bisogna andare calmi, l’ulivo non è mica
come una pianta di frumento. Cioè, dobbiamo reimpiantare, si spendono
dei soldi, cerchiamo con lo collaborazione anche dell’Istituto agrario
Spallanzani di vedere quale cultivar è meglio mettere perché quando
hai piantato una pianta, se hai fatto le cose giuste hai i risultati giusti,
ma se ét ciap ‘na sferghèda t’è sbagliê, e
le piante di ulivo visto che campano più delle persone, bisogna stare
attenti.
Ma noi questo progetto pensiamo che vada bene e poi saremo dei pionieri,
lasciamo una traccia.
Remo: Cerchiamo di portare avanti quello che hanno fatto i nostri antenati
Mirella: l’ulivo come pianta e poi anche come olio, nella sacralità,
ci sono gli oli santi, nella bibbia si parla degli unti, quelli che erano scelti,
cioè c’è tutta una tradizione, per me è una pianta
meravigliosa.
Io non ci sarò più ma fra tanti anni se verrete su per di
qua direte “vè mo’ gli ulivi che hanno piantato...
è stato un progetto valido”. Vi farete fare due spaghetti
aglio, olio e peperoncino, oppure se non c’è del peperoncino che è più del
meridione… però adesso non si deve dire meridione, sud o nord,
perché con la globalizzazione a va bèin incòsa, l’importante
che la roba la sia bòuna e genuina, che abbia il gusto di quello
che si mangia, cioè se mangi una mela deve sapere di mela, se mangi una
pera deve sapere di pera, ma menga tótta sta uniformitê che
piò ét magn e t’ingògn ma t’én magn mènga.
Slow food vuol dire adagio, degustazione, convivio, parlare, invece t’ingògn ‘sti
snek, si diventa dei trasformatori, mangi una cosa e la trasformi ma il
gusto e anche il senso critico, c’è tutta una educazione dietro.
Perché io quando vado ancora a mangiare a casa di certi anziani chi
pésta ancàra al gras inzèma a la pistadòra… poi
c’era tutta una tradizione, allora mangiavano prima, si alzavano alle cinque
di mattina, non c’era mica bisogno di guardare gli orologi: quand a
sintìven pistàr al gras l’éra onz ór e
a mezzogiorno si mangiava. I tempi erano scanditi dai profumi, e non è mica
poesia sono vere queste cose, è poesia unita al gusto e al sapere perché ognuno
era libero, cioè condizionato perché c’era poco benessere
ma tu sceglievi e t’in gnìv mia bumbardê da c’al
prodòt lè, da qual lè o da qual là, tant t’andèv
in dl’ort e ét giv a gh ho quest, quest e quest, eri in grado
di scegliere di gestire la tua giornata, la tua vita a rischio, con meno benessere
però io dico che erano tempi che avevano anche il loro fascino.