06/09/2006
Caseificio
Pompeano, Frazione di Serramazzoni
Celeste Fontana
Casaro: taglio del parmigiano
Romano e Tiziano Fantini
Casari del caseificio Santa Rita
Il Parmigiano Reggiano: tagliare la forma, la stagionatura delle forme,
la conservazione dell’agricoltura biologica
PARTE 3
Abbiamo visto il taglio della forma, ci vuole raccontare un po’ della
sua esperienza?
Celeste: un passato un po’ antico, questo altro anno il 4 aprile sono cinquant’anni
che sono dentro all’ambiente del caseificio, e come formaggio ne ho tagliato
più di 10.000 forme.
Lei dove è nato?
Celeste: io sono nato a Spervara di Frassinoro, sono un montaner e ci
tengo molto a dirlo, io mi ricordo quando andavo a fare il garzone da casaro
là su da noi, per due anni andavo al mattino a lavare i bidoni, i coperchi
e le vasche.
Quando ha cominciato?
Celeste: nel ’57 a 16 anni, allora si lavava solo quella roba lì.
Questo era il compito del garzone?
Celeste: il mio era il minimo compito e mi ricordo benissimo che c’erano
137 contadini, ho fatto una pesata di 7 etti a Sassatella, questi sono lavori
che sono verità, allora c’erano delle mucche che facevano 6-7 litri
di latte, adesso abbiamo delle mucche che ne fanno 30-40 Kg di latte.
Che mucche c’erano allora?
Celeste: le montanare con delle corna dritte che sembravano aghi, poi sono venuto
giù a Riccò a fare il garzone e poi sono partito di lì,
sono stato 18 anni a Prignano…
Lei quindi ha fatto una bella gavetta?
Celeste: mi è sempre piaciuto, io arrivavo alla sera che mi sembrava che
fosse mezzogiorno, il tempo mi passava benissimo, come dicevo sono stato 18 anni
a Prignano, 10 a Pavullo e poi ho fatto la finale a Montefiorino come casaro,
come garzone 6 anni su a Montefiorino e 6 anni a Riccò di Serramazzoni,
ovunque andavo mi sono trovato sempre molto bene.
Sempre parmigiano reggiano?
Celeste: sempre parmigiano reggiano.
E come è cambiato il latte a fare parmigiano reggiano?
Celeste: è cambiato molto, è cambiato la qualità, le mucche,
perché allora avevamo mucche da 8-10, 12 litri, 15 era regina, adesso
se non fanno più di 20 litri le danno via perché è poco.
E questo ha migliorato o peggiorato le cose?
Celeste: ha peggiorato secondo me la situazione, prima di tutto allora una famiglia
riusciva a campare con le mucche, adesso se non abbiamo di quelle mucche lì non
si va mica avanti, Poggioli qua lo sa benissimo.
Facevano meno latte?
Celeste: facevano meno latte ma c’era una resa migliore, adesso per fare
un kg di formaggio ci vogliono 17 litri di latte, allora erano sufficienti 11-12,
vuol dire 5 litri di latte in più adesso. Quando sono venuto qua io a
Riccò ricordo che c’erano le mucche già da 20 litri, mai
come su che ne facevano 11-12-13.
La qualità del formaggio allora come era?
Celeste: era molto migliore per me.
Cosa aveva di diverso?
Celeste: era più grasso perché la mucca rendeva di più,
perché faceva meno latte, allora un contadino campava; adesso se non si
produce non si salta fuori.
E i sottoprodotti come il burro e la ricotta?
Celeste: mi ricordo che il burro era un burro bello giallo, cremoso, invece adesso è cambiato
tutto.
Quando hanno cominciato a fare parmigiano reggiano in montagna?
Celeste: io mi ricordo che in montagna il primo caseificio è stato a Frassinoro,
l’ha fatto Don Costantino, parliamo del dopoguerra subito, ’45 – ’46.
Fino ad allora non si faceva parmigiano reggiano?
Celeste: si facevano dei formaggini in casa di 2 kg 2 kg e mezzo, io mi ricordo
che si portavano alle botteghe come il burro, allora si campava così,
mi ricordo mio padre nel ’49-’50 penso che allora prendessero 18
lire il litro con 30 ql, prendeva 4-5000 lire e si campava, invece adesso ci
vogliono 60-70milioni e non si campa. Dopo a Frassinoro è nato il Sasso
fatto da Don Merciari e poi c’era Fontanaluccia fatto da Don Mario che
poveretto è morto.
Ma come mai questo impegno dei sacerdoti?
Celeste: il prete allora sapeva un po’ di tutta la parrocchia, di tutto
il Comune, e anche noi nel mio piccolo paesino eravamo più di 200 persone,
adesso ce ne saranno 10. Allora non si sapeva come fare ad andare avanti e allora
il prete propose di fare un caseificio anche lì, così la gente
porta il latte e alla fine dell’anno prendono dei soldi perché allora
entro la fine di gennaio era venduto tutto, a fine gennaio si tiravano i soldi,
adesso invece vengono dopo 1 anno o due i soldi, li tirano dopo 3-4 mesi, adesso è molto
difficile.
Quindi questa decisione di fare i caseifici è stata
fatta per evitare l’emigrazione?
Celeste: sì, per evitare l’emigrazione, mi ricordo mio padre che
ad ottobre partiva e andava in Sardegna, in Corsica, a Grosseto in Maremma, facevano
i muratori per potere tirare avanti e passare l’inverno poi dopo quando
tornavano a casa si faceva quel poco di latte, però si tirava avanti.
Mi ricordo che quando c’era la nostra produzione allora uno diceva “se
mi lascia a casa 10-15 giorni, sto a casa volentieri col latte” perché allora
facevamo quelle 30 formaggine che erano grandi così perché allora
il latte rendeva e poi dopo per mangiarle.
È stato facile convincere i contadini a conferire il
latte al caseificio?
Celeste: mi ricordo che a Frassinoro quello che faceva la raccolta del latte
aveva una moto, con due bidoni facevano una forma, girava per tutto il Comune,
uno diceva “mah, portare il latte là e se dopo non me lo pagano?”,
noi eravamo in sei fratelli a ghera sei buc da sfamare, avevano paura
poi piano piano, io mi ricordo un signore lì ha incominciato ad andarci
subito e diceva “io ho tirato 2000 lire”, quell’altro 1500,
un altro 4000. Parlo del ’50.
Quindi si prendeva di più a dare il latte al caseificio?
Celeste: sì, e dopo uno andava, quell’altro andava e il nostro caseificio
era diventato abbastanza grosso.
Io mi ricordo che al Sasso di Montefiorino c’eravamo in 137 contadini,
un lavoro incredibile, ho fatto una pesata da 7 etti perché non è che
avessero solo sette etti però avevano da dare il latte al mattino ai figli,
allora anche se una mucca faceva 3 litri di latte 3 e 3 sei mattino e sera, allora
il latte era un alimento che si mangiava anche alla sera perché non c’era
altro. Per me il formaggio è la vita, infatti quando debbo andare a tagliare
il formaggio lascio tutto, se debbo andare a nozze vado a tagliare il formaggio,
perché mi piace. Io a macchina non ho mai tagliato, ho sempre tagliato
a mano, forse a macchina non penso nemmeno di riuscirci.
A chi vendevano quei piccoli caseifici di montagna?
Celeste: allora c’era il sig. Baracchi di Sassuolo, si vendeva a lui. Era
un gran commerciante, un mediatore, a Sassatella lì al Sasso dove andavo
al caseificio io, si facevano quelle 400-600 forme all’anno però venivano
e pagavano entro la fine di gennaio, non c’era più niente in magazzino,
si tenevano 3-4 forme per tutti e poi si tagliava caso mai un mezzo kg per Natale,
per Pasqua.
Quindi tutto andava al commerciante e il prezzo lo faceva lui?
Celeste: c’erano anche allora i bollettini, mi ricordo che giù a
Modena al mercato c’era il bollettino, però allora prendeva di più il
formaggio di pianura che noi, perché era più commerciabile, forse
veniva pronto prima e il negoziante lo teneva in casa meno e andava a soldi prima.
Invece adesso è molto migliore la montagna perché il formaggio è più bianco,
più grasso è più profumato. Mi ricordo che là su
da noi c’era la stalla dei maiali, ce ne stavano dentro 70-80, adesso ne
hanno 7-8000. I maiali sono arrivati con i caseifici col siero, dopo noi facevamo
la miscela orzo-gialla e crusca e basta per i maiali, si comperavano ad aprile
e si vendevano a ottobre-novembre.
A chi si vendevano?
Celeste: mi ricordo che allora c’era Campani di Sassuolo e poi i Gori,
erano brava gente che faceva i negozianti di maiali, davano i piccoli e prendevano
anche i grossi.
Allora i maiali andavano a finire sul mercato?
Celeste: allora aprivamo in aprile o verso la fine di marzo e si chiudeva a San
Martino.
Secondo lei quale è stato il ruolo dei caseifici di
montagna, quello di consentire ai contadini di sopravvivere?
Celeste: sì, adesso però fanno più fatica.
Perché secondo lei sono entrati in crisi?
Celeste: per me perché prima di tutto il prezzo del formaggio non è il
suo, un formaggio di 12 mesi costa 8-10 euro alle botteghe, all’ingrosso
dovrebbe costare da 8 a 10, allora sì che il contadino riesce.
Ritorniamo indietro un passo, allora un contadino con una mucca 10-20 litri
tirava avanti, adesso se non si fa 70-80 ql di latte non ci si riesce, quindi
la mucca più grossa è e più triste diventa.
NON C’E’ VIDEO CORRISPONDENTE ALLA SEGUENTE PARTE DI TESTO
Si diceva con Celeste prima che con questi piccoli caseifici
la gente in montagna è rimasta a lavorare, si faceva il parmigiano
reggiano più buono eppure in questi ultimi anni vediamo che nella
crisi del parmigiano reggiano i caselli che più soffrono sono proprio
i più piccoli, quelli della montagna.
Come mai questo?
Claudio: è un discorso abbastanza lungo, vediamo di farlo breve. Premetto
che io sono una generazione successiva a quella di Celeste però ho sempre
seguito mio padre da bambino, è il mio lavoro da una vita e lo sto continuando,
mio padre andava in un caseificio, prima c’erano quelli che ti compravano
il latte, le prime cooperative negli anni ’50 sono state create in un
caseificio qua vicino che il proprietario era il casaro, il padrone e quello
che ti raccoglieva il latte. Era stata adottata la formula della cooperativa
però eri in casa di altri, non riuscivi a muoverti come volevi, di conseguenza
eri sempre un po’ legato al discorso della commercializzazione. In quegli
anni mio padre e alcuni soci crearono la cooperativa di Santa Rita, nel 1964,
era fondamentale tornando al discorso di prima il caseificio cooperativa, perché per
produrre il parmigiano specialmente una volta, come diceva Celeste, c’erano
137 stalle perché per fare il parmigiano ci vuole tanto latte e in ogni
stalla c’erano poche mucche, il sistema dell’aggregazione giusto
era la cooperativa per mettere assieme una certa quantità di latte per
produrre questo formaggio che ha bisogno minimo di 12 mesi. Non solo, una volta
la formula era che il parmigiano reggiano veniva stagionato fino a 12 mesi
dalla latteria poi il commerciante stagionatore l’acquistava e la portava
minimo a 24 mesi e allora va da sè che era l’esposizione di 24
mesi che l’agricoltore non riusciva a sopportare, difficile e impegnativo,
allora ci si fidava però erano anche galantuomini che ti davano il reddito
che ti serviva. La forza di questi caseifici a mantenere questo territorio
era che questo territorio è mantenuto con la presenza dell’uomo
e il giardiniere del territorio è l’agricoltore e l’agricoltore
ci sta solo se riesce a creare il reddito. Il reddito lo riusciva a creare
perché l’unica produzione che abbiamo qua è quella del
parmigiano reggiano avendo la latteria-caseificio cooperativo per poi creare
la trasformazione e riuscire a creare il reddito per mantenere le famiglie.
Oggi è difficilissimo perché a quello che ne so io ci sono
10 volte tante imitazioni a questo prodotto ma non hanno niente a che vedere.
A mio avviso è il consumatore che non sa scegliere perché non
sa quello che va a prendere, guarda solo il prezzo; di conseguenza il mercato
di questo prodotto è crollato e sta mettendo in crisi le aziende agricole,
in particolare la montagna che non ha altri prodotti se non il parmigiano reggiano,
si è quasi obbligati a chiudere perché strozzati dai prezzi.
Noi nello specifico di Santa Rita, la nostra cooperativa di cui io sono il
presidente, produttore con altre 7 aziende riusciamo a portare avanti il discorso
ma a fatica perché abbiamo a suo tempo fatto la scelta del biologico,
una scelta fatta alla fine degli anni Ottanta primi Novanta, dovuta a una crisi
del parmigiano reggiano e in particolare incappammo dentro al fallimento di
una struttura che ci prese il formaggio e ci mise in crisi.
Di conseguenza pensammo di fare questo prodotto, in modo adeguato, diverso
dagli altri perché facendolo in modo biologico siamo tornati un po’ alle
origini, quindi animali non sfruttati, in questo momento stiamo cercando di
puntare sulla tutela e la salvaguardia della bianca modenese e vogliamo arrivare
a fare il parmigiano reggiano biologico di bianca modenese. La nostra forza è stata
la commercializzazione di questo prodotto, la nostra forza ma anche il nostro
sacrificio perché come ho detto prima minimo minimo servono 24 mesi
anzi noi facendo del super stagionato arriviamo fino a 36 mesi e oltre di esposizione
economica però ci siamo messi a commercializzare il nostro prodotto
frutto del nostro sudore, facendo conoscere in tutta Italia e in tutto il mondo
per quello che è.
Cosa ha significato passare al biologico, dal punto di vista
del vostro lavoro?
Claudio: è stato un passaggio importante però non difficilissimo,
va saputo interpretare e ci vuole la coscienza di volerlo fare, un po’ per
la cultura della nostra famiglia che è di origine contadina ma anche
sensibile al territorio, all’ambiente, agli animali. Se noi torniamo
indietro negli anni, l’agricoltura biologica qua noi l’abbiamo
sempre fatta, poi ci siamo un attimo persi, ma con la coscienza e il nostro
sapere abbiamo detto: “perché dobbiamo deturpare, creare dei problemi
a un territorio, a degli animali, a un prodotto qualificato come il parmigiano
reggiano?” E di conseguenza il passo è stato semplice e breve,
fra virgolette perché è questione di cultura più che altro.
La produzione sicuramente è inferiore, il rispetto per l’ambiente
ha dei grossi vantaggi ma secondo me, noi, ne sono sicuro, abbiamo riscoperto
i sapori, gli odori e i profumi nel prodotto e riusciamo a valorizzarlo in
modo molto superiore, perché se noi con i nostri costi e la nostra esperienza
fossimo sul mercato convenzionale, potremmo avere già chiuso, così ce
la stiamo cavando.
Quali erano le pratiche di campagna o di stalla che non funzionavano,
dov’era la chimica?
Claudio: la trasformazione del parmigiano reggiano è tutta di per sé biologica,
parte il discorso nei campi e nella stalla: nei campi si era cominciato ad
usare non nella nostra famiglia ma qui tutti attorno concimi chimici, qualche
pratica di diserbo che non aveva alcun significato, serviva solo a mantenere
qualche industria. La rotazione agraria naturale di conseguenza, dopo la fine
di un prato si mettevano i cereali che servivano sempre.
Si faceva 7 anni di prato?
Claudio: 4-5-6-7- anni di prato medicaio o prato
polifita, alla fine della carriera di questo prato veniva dissodato, arato
e via e si seminava per due anni cerali: grano e orzo che facevano parte del
mangime degli animali. Noi siamo tornati a queste origini perché noi
il mangime ce lo facciamo in conto lavorazione nostro e non abbiamo come tutte
le industrie mangimistiche: 100 prodotti a cartellino che settimanalmente vengono
acquistati per fare un formulario di mangime a minor costo; ma noi abbiamo
4 elementi che sono quattro cereali: orzo, mais, erba medica disidratata e
favino che è l’unico apporto proteico, non usiamo la soia perché non
c’è da fidarsi.
Il favino lo fate voi?
Claudio: sì, lo facciamo noi, quindi nella rotazione è compreso
il favino e le leguminose che servono per arricchire il terreno mentre i cereali
prendevano l’azoto lasciato da queste.
E la concimaia?
Claudio:la concimaia veniva usata tutte le volte che si arava sia nella stoppia
dopo il grano e per preparare il terreno ed è l’unico fertilizzante
che noi usiamo.
Perché avete la concimaia dei vostri animali.
Claudio: esatto, e il ciclo è chiuso con la stalla
Anche come pratiche agricole in qualche misura siete rimasti legati
al passato?
Claudio: certo, siamo tornati al passato, usiamo mezzi meccanici con delle
tecniche che sono quelle vecchie ma che a nostro avviso possono permettere
una agricoltura in montagna di qualità, alla fine deve essere valorizzato
il prodotto finale.
I filari di vite non ci sono più però.
Claudio: i filari di vite li avevamo, li abbiamo tolti; è stato
un altro passaggio brutto perché davano fastidio alla lavorazione anche
se qui da noi non è che maturasse benissimo la vite, ma avevamo qualche
filare di vite maritata all’olmo.
Frutta?
Claudio: solo frutta per uso familiare, ma non viene qui.
La qualità del grano?
Claudio: ci sono riscoperte sempre nel nostro ambito familiare di cooperativa
di grani antichi per la panificazione, adesso ne stiamo facendo un uso personale.
Quali sono?
Claudio: il 96 che è un grano nostro antico, veniva usato per fare le
crescentine, per il pane, produce poco, viene altissimo perciò produce
anche un po’ di problemi nella raccolta, però profumi e sapori
che non ci sono più; il mentana, il marzuolo, tutti grani vecchi di
una volta che si stanno riscoprendo.
Mettiamo della roba per i nostri animali e della roba per noi.
Chi vi assiste nella ricerca e nella scelta di questi coltivazioni,
una volta c’erano i consorzi agrari? Claudio: ci sono varie
strutture, ci sono tuttora i consorzi agrari che si sono riuniti dopo le loro
brutte vicissitudini. Adesso siamo legati a un consorzio di Bologna che prende
quello di Modena e di Reggio, ma lì siamo legati solo per la lavorazione,
il conto lavorazione del mangime perché hanno una struttura nella nostra
zona che era chiusa, l’abbiamo fatto riaprire noi perché li confluiamo
le nostre materie prime e loro, in conto lavorazione sotto la nostra tutela,
ci fanno la lavorazione del nostro mangime che non ha 150 prodotti base ma
i cereali, le cose che noi produciamo o che acquistiamo qua attorno da gente
che non ha la stalla ma che fa agricoltura biologica nei loro terreni.
L’orzo vostro di che varietà è?
Claudio: sono varietà che riseminiamo sempre, ci scambiamo le sementi
perché i nostri vecchi ci hanno insegnato che seminare sempre gli stessi
semi sullo stesso terreno, arriva a un punto che non produce anzi si inselvatichisce
e produce sempre meno.
Celeste: il grana, sono verità, dura due anni non di più perché è spinto,
poi dopo c’è dentro quel lavoro lì, poi dipende perché si
trova anche di due – tre colori, si trova rosso e grigio. Loro hanno delle
mucche che fanno più di cento quintali di latte, qui invece le mucche
fanno dai 50 ai 60 quintali, la metà. Torniamo indietro a quando facevo
il garzone io che eravamo 137 contadini. Poi l’alimentazione: loro possono
dare tutto: barbabietola, la frutta seccata e macinata, il mais, il malghet che
li spingono, l’erba medica qui da noi bisogna darne poco perché altrimenti
vanno su le cellule, quando queste vanno su viene la mastite e allora va giù tutto.
Qui da noi le mucche durano 8-10-12 anni, la invece 4-5 anni poi via, sono da
macellare perché sono troppo sfruttate. La gente deve sapere questi lavori,
a me quando lo chiedono lo dico, il 90% non lo sa neanche. Siamo in un momento
che le massaie guardano quello che spendono però ci sono due-tre quattro
mila lire di differenza, il nostro lo vanno a prendere alle botteghe, viene da
9,50 a 12, quello lì 6-5- 4,5 dipende, ero lì a Serra da Regnani
stamattina in bottega e mi diceva che adesso arriva del formaggio a 4 euro-3
e mezzo e “sai come facciamo, si grattugia e la gente lo compera, adesso
le nostre donne non vogliono neanche più grattugiare il formaggio, lo
portano a casa e via, io lì guadagno” . Noi andiamo a tagliare il
formaggio, quando siamo andati a Conigliano per Santa Lucia a gherum nuantar
du con il padano, ce n’era uno che è arrivato con i pezzi già tagliati,
noi abbiamo venduto 48 forme venerdì, sabato, domenica e lunedì mattina
perché dopo l’a taca a piovra e via si no an vanivan ero
con un’altra latteria sempre di Serra al sabato e la domenica a ghe
tuca da gni a toran altre 8-10. Loro erano già arrivati con i pezzi
già tagliati, io avevo fatto la mia montagnina una sopra l’altro
e le tagliavo li davanti; è arrivata la moglie del presidente l’a
dis “Celeste, Oh!” perché lo vendevamo a 15, l’a
dis “i al vend a neuv, cambiamo prezzo”, “no” gli
detto, e di fatti dopo un po’ giravano e giravano perché c’è sempre
l’assaggio e al dis “il vostro è sempre il migliore”.
Meno male, però quello là è grana padano, questo qui è parmigiano
reggiano, hanno imitato la Ferrari ma il parmigiano reggiano non riescono a imitarlo.