18/07/2006
Casaro
Montagnana, Frazione di Serramazzoni
Maria Giovannini
Luciano Muzzarelli
e il figlio Giorgio
Ristoratori Hotel Valverde
Ricette e alimentazione di una volta
Le forme di formaggio – Pane e lievito
PARTE 4
Per fare forma ci vuole il caglio per farlo coagulare e ci vuole anche il
siero. Quando si fa la forma il primo fatto che si fa prima di prendere sù la
forma, quando si smette di mescolare (si mescola sempre perché se no
se cade in fondo, si coagula) quando è terminata la cottura, prendeva
via la rotella; il tutto si depositava in fondo, dopo 10 minuti, prendevo una
damigiana e la riempivo di siero, quello che ci andava ci andava. l’altro
si buttava, da oggi a domani andava su una acidità dai 28 ai 29 gradi,
il buono era 29. Quel siero si metteva dentro subito quando si cominciava a
scaldare, si teneva sempre mescolato e all’ultimo momento quando si scaldava
il latte, a 28 gradi si metteva il caglio mescolato bene e si lasciava andare.
Allora lì da solo, dopo 10 minuti circa, vedevi che il latte cominciava
a prendersi: anche lì non bisognava mai lasciar scappare troppo perché dopo
la forma diventava troppo dura.
Giorgio: quelli che comperavano la partita si portavano dietro il battitore
che aveva un martellino, controllava la qualità del formaggio senza aprirlo.
Hai qualche aneddoto da raccontare, erano bravi? È vero che usavano l’orecchio
per sentire se il formaggio era buono?
Luciano: era il rumore del martello che faceva, quando arrivano in un punto che
c’era una piccola crepa era un suono diverso, bisogna poi farci l’orecchio.
Giorgio: mamma, il pane che facevi nel forno come facevi a farlo lievitare,
ci mettevi un lievito?
Maria: macinavano la farina, si setacciava con il remsol, tutti avevano
una panera lunga, grande dove mettevano la farina, poi tenevano un impasto
grosso così come una crescenta dell’infornata precedente.
Quello lì lo usavano la volta dopo, scaldavano l’acqua, glielo
facevano disfare dentro, poi aprivano la farina, facevano un buco dentro la panara
con la farina che pensavano di fare il pane e dopo facevano come fare la pastella.
Quando era sodo giusto lo coprivano con la farina, poi ci faceva una croce “pan
pan crass cóme él ciacher dél dann a la pàzza” (pane
pane, cresci come le chiacchiere delle donne al lavatoio)
Giorgio: quel lievito lì come si chiamava in dialetto?
Maria: l’alvadòr.
Giorgio: finita la produzione di pane, il forno si era abbassato di temperatura
però si sfruttava ancora il calore, per cuocere cosa?
Maria: allora si cuocevano come in questo periodo le mele, le pere, le prugne,
facevano la frutta secca oppure avevano le mele che cuocevano e mangiavano cotte,
oppure il belson e bursilan, panettone tra il duro e il morbido che
si faceva la domenica mattina.
Giorgio: è un altro modo di chiamare il bensone.
Maria: la domenica mattina quando andavano a messa la gente non faceva
colazione e tutti ci andavano, non stavano lì a preparare il gnocco fritto
o le crescentine o la polenta che mangiavano a colazione o le frittelline di
castagno o la polenta di castagno o i ciacci.
Mangiati con che cosa?
Maria: con quello che avevano, le crescentine le mangiavano molto spesso con
i cipollotti, con l’insalata, il lardo, la ricotta; il gnocco fritto stessa
cosa.
Giorgio: dove li mettevano a cuocere quegli spicchi di mele che chiamavano as
ciapet?
Maria: su una gradela di videip, una pianta che viene nei boschi, un
rampicante, poi prendevano due rami, li legavano in cima e in fondo, ne mettevano
uno anche in mezzo, poi mettevano un bastone che si allargava e veniva fatto
così. Se facevano un arrosto mettevano anche la padella dell’arrosto,
il forno dopo serviva per fare tante altre cose, non andava perso niente.
Giorgio: al videipe erano le antiche sigarette dei bambini, tagliavano
un pezzettino di videipe secca, al centro c’era un foro e poi
si fumavano quelle, pensate che bene che facevano…