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03/10/2006

Neri Umberto


Documento senza titolo

Carpi
Umberto Neri
Ex mezzadro
Mezzadria: organizzazione e funzionamento.
Grande trasformazione agricola degli anni ‘60  

PARTE 2

Non è che negli anni ’60 tutto è scomparso in un batter d’occhio, ci sono stati anche quelli che sono diventati proprietari del loro podere, quindi si è estesa la piccola proprietà, allora c’erano anche delle agevolazioni. Poi cosa è successo, molti hanno cessato perché i giovani non rimanevano sulla terra perché avevano altre mire, altre possibilità perché l’industria stava nascendo allora prima col lavoro a domicilio, ogni casa di bracciante o di mezzadro aveva la macchina per fare la maglieria e quindi questo è stato un lavoro molto duro che ha permesso di ricavare un reddito importante che ha consentito di fare le casettine, gli appartamenti, di cambiare attività e cosi via.
E di mollare i campi?
Umberto: esatto, di mollare i campi.
L’agricoltura nel frattempo come si è trasformata?
Umberto: l’agricoltura nel frattempo ha subito questa evoluzione, pur restando una agricoltura di qualità perché in effetti era diventata estensiva non più intensiva perché allora si buttavano giù le piante, si facevano dei filari ben precisi, tutta l’altra parte veniva coltivata a frumento, barbabietole, soia, ecc...
Più monocolture?
Umberto: pomodori noi pochi, rimaneva nella valle la produzione ancora la produzione di meloni, cocomeri, riso che rimane tuttora ma questo era dovuto al fatto della bonifica che nel ’30 ha risanato una parte grande della nostra bassa Carpigiana da San Marino fino a Migliarina per Rio Saliceto e così via.
In fondo più un’agricoltura che ha fatto scelte di specializzazione, che ha avuto un rapporto sempre più stretto con la trasformazione del prodotto?
Umberto: sì, tant’è che subito nel dopoguerra si parlò di collettive cioè chi non aveva terre o niente formava delle cooperative di lavoratori che prendevano dei terreni da coltivare e quindi li coltivavano in economia, c’erano le cooperative macchine che lavorava parecchi poderi, c’erano le cooperative dei braccianti che andavano anche loro a coltivare dei terreni, il vecchio mezzadro abbandonava il terreno e subentrava nel governo del terreno queste cooperative che anche loro hanno dato un grosso contributo consentendo per esempio l’emancipazione degli stessi braccianti.
C’è stata ovviamente anche una forte meccanizzazione?
Umberto: io ricordo una cosa molto simpatica: subito finita la guerra noi a Migliarina avevamo Goldoni che noi chiamavamo Caium, a givan a ghe la fabrica, la butega di Caium, lui recuperò dei pezzi di vecchie macchine disusate in guerra, gli montava lui un motorino slanzi o lombardini e con le pompe si riusciva a irrigare i campi, noi li guidavamo e non avevamo più bisogno dei buoi, in dialetto la chiamavamo la carioca, davamo così l’acqua alla vite, questa è stata la prima meccanizzazione del podere che ha ridotto notevolmente lo sforzo delle persone.
Negli anni ’60 si è assistito a questa grande trasformazione in agricoltura nel senso che i tipi di coltura ma anche i tipi di animali che venivano allevati, è stata fatta una scelta verso la quantità, sulla resa, sulle riduzioni dei costi, poi sull’industrializzazione.
Umberto: la grande evoluzione, io la chiamo così, è stata col lavoro a domicilio, il momento in cui c’era un gran bisogno di reddito, tutte le famiglie si sono indebitate, si sono presi la macchina di maglierie e altre ancora... Chi ha guadagnato sono stati gli industriali perché portavano il lavoro ma pagavano pochino, prima si faceva in casa il cappello o la treccia, cose da poco, a quel punto lì, invece il lavoro a domicilio si è talmente diffuso che ha portato del reddito e ha consentito a mio parere la grande svolta nelle campagna, dove in effetti producendo perché si lavorava 24 ore su 24, perché due figlie lavoravano 24 ore, si alternavano, e quindi hanno prodotto reddito per chi faceva il magliaro ma hanno arricchito anche la famiglia. Secondo me questo è stato il punto di svolta dell’agricoltura, dove c’era bisogno di costruire allora c’era bisogno di manodopera allora i mezzadri sono andati a fare i muratori; mio padre per esempio, altri invece sono andati in fabbrica, quindi c’è stato questo abbandono delle campagne e c’è stato un avvicinamento degli abitanti delle frazioni al centro, a Carpi ci sono delle zone abitate da tutti quelli di Cortile, altre abitate da quelli di Migliarina... tanto per dare una caratteristica dello sviluppo che è intervenuto a Carpi. La cooperazione ha rappresentato una cosa formidabile perché c’era già una storia, le prime cooperative qui a Carpi sono nate i primi del ‘900 quindi il fascismo ha cercato di bloccare tutto ma la CMB c’è ancora, non so se mi spiego, la cooperativa dei muratori e questa è una tradizione, una vecchia istituzione. La cooperazione durante il fascismo è stata bloccata ma immediatamente nel dopoguerra è rifiorita, le cooperative di consumo collegate con l’alleanza modenese, allora in ogni frazione c’era lo stabile cooperativo, il consiglio, il provveditore che era un mezzadro che andava ad acquistare; mio padre per esempio lo ha fatto per alcuni anni, andava a prendere la roba e la portava a Migliarina, cioè una vita anche importantissima per tutta la frazione e la cooperazione, ha avuto la sua evoluzione diventando un soggetto importantissimo.
Tornando alle mucche, come è stata la scelta di mollare quelle bianche per le pezzate?
Umberto: torniamo negli ’48-’49, noi le chiamavamo le olandesi... anche qui il problema era quello della produttività, nel dopoguerra si fecero tramite l’APA, l’associazione degli allevatori, degli esperimenti, degli incroci per elevare il quantitativo di latte prodotto dalle mucche, dalla bianca e anche da tutte le qualità, io ricordo che sono stato a Modena a lavorare, che una stalla di un agricoltore di Nonantola era arrivato a produrre sugli 80-90 quintali di latte da una vacca quindi la cosa era enorme, però non c’era la qualità, allora se vogliamo fare il parmigiano reggiano c’è bisogno di una qualità del prodotto del latte, quindi dopo si è tornato a ridurre il quantitativo di produzione del latte perché se no non esce un parmigiano reggiano come si fa oggi. Anche lì il bestiame non serviva più a coltivare il terreno, serviva il letame caso mai ma non di più, serviva invece una alta produttività allora i vitelli... allora produzione quelli che si vendevano a una certa età, quelli che si tenevano, insomma c’era anche qui un discorso importante che ha modificato notevolmente quella che era la composizione della stessa stalla.
Nei campi la stessa cosa, si è assistito a una crescita imponente delle rese?
Umberto: sì certo.
Anche qui da cosa è dipeso questo risultato?
Umberto: è dipeso dalla industrializzazione e poi dall’immissione di prodotti di concimi o altro che hanno elevato le rese; andava bene il letame che però andava integrato da concimi, sali e altri materiali ancora, cioè non voglio dire che non erano inquinanti però questo consentiva maggior resa delle varie colture.
Anche qui c’è stata selezione genetica?
Umberto: sì, anche qui c’è stata, certe selezioni; adesso si possono discutere perché servirebbe venti, trent’anni prima di metterle a produzione, però sicuramente l’evoluzione c’è anche nei semi, nella ricerca dei semi di qualità e quindi di una elevazione del quantitativo del prodotto.